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Pubblicato in Altri diritti

La complessità della semplificazione e la “chiarezza espositiva” degli atti processuali come strumento di riduzione dei tempi della giustizia civile

by Cons. Corte di Cassazione Lucia Tria on06 Luglio 2014

La complicatezza del nostro ordinamento – in tutte le sue molteplici manifestazioni – è il maggiore ostacolo al buon governo e, quindi allo sviluppo del Paese. Questo svantaggia specialmente i nostri giovani che, in numero sempre crescente, vanno all’estero a cercare lavoro.

Così il Paese perde, man mano, il proprio futuro e anche la propria identità nazionale, senza quasi farci caso.

Questo deve essere evitato e questo deve essere lo scopo ultimo cui indirizzare gli sforzi individuali e collettivi verso la semplificazione, perché, secondo le condivisibili parole del Presidente Napolitano[1]una comunità nazionale che non genera abbastanza figli o che non pensa abbastanza alle future generazioni «è assimilabile a una specie in via di estinzione, segnala un profondo malessere, una rassegnazione, in sostanza, al declino».

Su questo dobbiamo riflettere, per metterci finalmente all’opera lungo un percorso che il nostro legislatore ha sentito l’esigenza di intraprendere da tempo remoto.

Infatti, sfogliando la raccolta dei testi normativi che non risultano essere stati abrogati si scopre che il primo testo che, fin dal titolo, rivela l’intento del legislatore di puntare alla “semplificazione” è il decreto legislativo luogotenenziale 2 dicembre 1915, n. 1847, intitolato – quasi emblematicamente – “Semplificazione di alcuni servizi delle Opere per i manicomi”.

Peraltro, proseguendo nella consultazione, si apprende che da allora – sia prima che dopo l’emanazione della Costituzione – sono stati emanati centinaia di atti di normazione, sia primaria sia secondaria, diretti alla “semplificazione” dei più diversi settori dell’amministrazione.

Nonostante la presenza di tanti testi normativi espressamente dedicati alla “semplificazione” e di Istituzioni apposite – il cui funzionamento, peraltro, è regolato da discipline tutt’altro che semplici, in assoluto e nelle loro reciproche relazioni – il nostro ordinamento risulta tuttora tutt’altro che semplice o “semplificato”.

E’ specialmente nei settori di maggiore rilievo per i cittadini e per le pubbliche Amministrazioni – come il settore tributario, quello previdenziale, quello lavoristico, quello dei beni culturali e così via – che il nostro ordinamento risulta afflitto dal male che maggiormente è di ostacolo alla crescita: quello della c.d. “bulimia normativa”.

Alla enorme quantità di norme si aggiunge anche la loro qualità che è tutt’altro che improntata alla chiarezza e, da questo punto di vista, non risulta normalmente rispettosa dei criteri di tecnica redazionale che sia il legislatore statale sia quello regionale si sono dati in appositi atti ufficiali.

Va, inoltre, considerato che, a volte, la scarsa chiarezza strutturale di un testo normativo può derivare anche dalle modalità della relativa approvazione in sede parlamentare, come, per esempio, accade per gli atti normativi sulla cui approvazione il Governo pone la questione di fiducia.

Sul punto è opportuno evidenziare una sintetica testimonianza degli effetti che il suddetto disordine normativo e amministrativo produce sulla gestione del servizio giustizia.

Si tratta di effetti, a mio avviso, devastanti da diversi punti di vista, in particolare: 1) per l’eccessivo volume di contenzioso che produce; 2) perché comporta una cattiva utilizzazione delle risorse materiali e umane – cronicamente scarse –  derivante da disfunzioni organizzative che spesso non possono che essere subite dai protagonisti (in particolare: dai magistrati); 3) perché dà luogo ad incertezze nella interpretazione delle diverse norme da applicare, con conseguente mancato rispetto del principio della prevedibilità delle decisioni; 4) perché si traduce in scarsa tempestività della risposta alla domanda di giustizia dei cittadini, a sua volta produttiva di spese per il bilancio pubblico in conseguenza della violazione del principio della ragionevole durata del processo e dell’applicazione della disciplina nazionale in materia.

Sotto quest’ultimo profilo ritengo che sia necessario responsabilizzare, per primi, tutti gli operatori giuridici (ovviamente a partire dagli stessi giudici e dagli avvocati), perché “sentano” la necessità di collaborare a dare una migliore attuazione al principio costituzionale – di importazione europea – della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.). Ad esso deve essere attribuito un ruolo di assoluta centralità soprattutto in un momento di crisi economico-finanziaria come l’attuale, visto che la lentezza del processo ne fa lievitare enormemente i costi, economici e sociali.

Al fine di garantire a tale principio una prima ed immediata tutela (e nell’ottica che il legislatore affronti in modo coordinato le sopraenunciate molteplici e concorrenti disfunzioni di sistema), gli operatori giuridici possono mettere in pratica, nell’immediato, alcune prassi “virtuose” tali da incidere in breve tempo sulla lunghezza esorbitante dei tempi processuali della giustizia civile.

La prima di esse è, a mio avviso, quella della “chiarezza espositiva” applicata, in questo ambito, agli atti con cui si accede ai Tribunali e alle Corti, nonché ai provvedimenti da questi emessi.

A tale “prassi” non può non essere, infatti, riconosciuto un ruolo di primaria importanza per il raggiungimento del suddetto obiettivo, essendone innegabile lo stretto legame con la prevedibilità delle decisioni, la quale oltre ad essere un canone caro alle Corti europee, produce benefici effetti riduttivi sulla domanda di giustizia.

È poi altrettanto sicuro che l’adozione di uno stile più sintetico e di un linguaggio più chiaro nella redazione degli atti avrebbe anche il vantaggio di rendere più facile il dialogo tra le Corti supreme nazionali (per l’Italia: Corte costituzionale e Corte di cassazione) e quelle internazionali, sovranazionali e degli altri Paesi europei, anche al fine di estendere il dialogo a tutti i giudici comuni.

E ciò avrebbe anche l’effetto benefico di rendere più trasparente e comprensibile il modo di operare delle diverse Corti nazionali non solo per i tecnici ma per tutti i cittadini europei. Del resto, si sa che da tempo è particolarmente sottolineata la necessità di “conformare il nostro sistema processuale ai principi della CEDU”, oltre che, ovviamente, a quelli della UE, tanto più che, com’è noto, in base a tali ultimi principi i cittadini dei Paesi della UE possono esercitare la professione forense in tutti gli Stati dell’Unione.

Nell’intraprendere il percorso virtuoso della “chiarezza espositiva” – non così agevole − si potrebbe cominciare ad impegnarsi, parallelamente, in due ambiti, diversi ma interdipendenti:

1) cercare di indicare – assimilandole in ambito europeo – le regole di redazione (lo stile e il linguaggio) degli atti che danno l’accesso alle Corti supreme a cominciare dalle diverse Corti costituzionali e dalle Corti omologhe alla nostra Corte di cassazione;

2) avviare un processo di standardizzazione, in ambito UE, della tecnica di redazione dei provvedimenti giurisdizionali.

Per quel che riguarda il primo dei suddetti ambiti, è bene muovere dal presupposto secondo cui dalle rilevazioni europee risulta che la nostra Corte di cassazione – che, abbiamo detto, è quella che ha la maggiore produttività in ambito UE, rispetto alle analoghe Corti – è una Corte che gode di una ottima considerazione, nonostante la criticità dei tempi processuali, criticità che, come abbiamo detto, è di sistema e che la Corte, in realtà, subisce.

Comunque, nonostante le perdurante oscurità e sovrabbondanza della nostra legislazione – particolarmente evidente in settori come quello del diritto tributario e previdenziale, che sono anche quelli per i quali, presso la nostra Corte di cassazione, giungono il maggior numero di ricorsi – il risultato, dal punto di vista qualitativo è migliore di quello di altre analoghe Corti europee.

Questa osservazione ha origini molto lontane.

Va, infatti, ricordato che l’obbligo della motivazione delle sentenze è una conquista relativamente recente, che il compianto illustre Collega Stefano Evangelista ed altri studiosi fanno risalire alla Prammatica del Regno di Napoli del 27 settembre 1774.

Lo stesso Evangelista ricorda che nelle epoche primitive – del c.d. “misticismo processuale” – lo strumento che consentiva la soggezione del giudicabile al potere giurisdizionale era rappresentato dal legame intrinseco tra religione e giustizia e dal diffuso convincimento della diretta provenienza della decisione dalla divinità per il tramite del giudice. In questa concezione si riteneva che il giudice mutuasse la propria autorità da virtù soprannaturali, come tali insuscettibili del sindacato umano.

Di qui il carattere quasi liturgico del processo, del quale resta oggi ancora qualche traccia nel peculiare abbigliamento proprio del giudice che siede in udienza e degli avvocati che ne sollecitano l’attività, composto dalla toga, il bavaglino e il tocco (quest’ultimo, ormai, usato solo in occasioni di speciale ufficialità).

Il tramonto del misticismo processuale, con la conseguente sostituzione del razionale al divino, rende necessaria la produzione di regole formali idonee ad assicurare, nel migliore dei modi possibili, la razionalità, ovvero la giustizia della decisione, che coincidono, visto che l’acquiescenza al potere giurisdizionale è, in questa fase storica, il frutto della fiducia nella ragione.

Di questa trasformazione della funzione giurisdizionale, l’introduzione del dovere di motivazione rappresenta uno dei più tardi – anche se dei più tipici – segni.

È così tramontata l’idea – sostenuta soprattutto da governanti dispotici – che la sentenza resta tale anche se la decisione presa non è stata motivata e quindi si possa trattare di un verdetto illiberale, dispotico o arbitrario.

La “svolta” significativa si è prodotta, come si è detto, quando, nel regno di Napoli, con una Prammatica del 27 settembre 1774, fu introdotto, per la prima volta − in Italia e in Europa − l’obbligo di motivare: “si spieghi la ragione di decidere o siano i motivi sui quali la decisione è appoggiata”.

Non ci si deve stupire della fonte di una iniziativa così dirompente.

Va, infatti, ricordato che nel settecento, nel Regno delle due Sicilie si è assistito ad un rigoglioso fiorire di studi filosofici, giuridici e scientifici, con illustri personalità le cui opere furono tradotte in diverse lingue.

In questo contesto, Napoli era il centro di pensiero più vivace d’Italia e in Europa era seconda solo a Parigi per la diffusione delle idee dell’Illuminismo; lo splendore della Corte e della società napoletana era proverbiale e attraeva le più importanti menti dell’epoca che spesso rimanevano a lungo nella città; geni assoluti come Goethe riconobbero nelle classi elevate del Regno una preparazione culturale non comune. Anche Stendhal disse che: “Napoli è l’unica capitale d’Italia, tutte le altre grandi città sono delle Lione rafforzate “; del resto Napoli era di gran lunga la più grande d’Italia e tra le prime quattro d’Europa.

Si comprende, pertanto, che proprio da Napoli sia nata un’idea cosi “rivoluzionaria”, come quella di imporre l’obbligo della motivazione delle sentenze, creando – nello stesso anno della Prammatica: 1774 – nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Napoli l’”Istituto della motivazione delle sentenze”, affidato al grande Gaetano Filangieri, 1774).

I giudici protestarono perché reputavano irrispettosa quella disposizione, che diminuiva il loro prestigio.

Ma il re Ferdinando di Borbone, mise a tacere le contestazioni, rispondendo che: “i giudici sono esecutori delle leggi e non legislatori (...). Oggi che talune leggi non possono farsi senza il preventivo assenso dei giudici (se non peggio dei soli pubblici ministeri) dov’è finita la sovranità della legislazione ?”

Così i giudici del Regno dovettero adeguarsi e, nel corso del tempo, a partire da quella disposizione “illuminata”, il registro di tutta la storia giudiziaria è cambiato e si è quindi avvertita ovunque, con forza crescente, l’esigenza di regole formali idonee ad assicurare nel miglior modo possibile la razionalità e la giustizia della decisione.

Da quel momento in poi l’acquiescenza al potere giurisdizionale si è basata sulla fiducia nella ragione e quindi è nato l’indissolubile connubio tra il momento autoritario del decisum e l’apparato logico-giuridico che lo deve sorreggere e, ancor più, giustificare: cioè la motivazione.

Per tali motivi i nostri codici di rito prevedono come regola basilare quella della obbligatorietà della motivazione, che oggi è estesa in modo generalizzato anche ai provvedimenti amministrativi e che si collega all’esercizio del fondamentale diritto di difesa.

Se siamo noi italiani i padri dell’obbligo di motivazione delle sentenze si comprende perché anche oggi la qualità dei nostri provvedimenti sia superiore alla media europea.

E di questo, almeno, dovremmo essere contenti, visto che non si può negare che una sentenza celere ma immotivata o motivata in modo incomprensibile non “rende giustizia”.

E allora partendo da questo dato, non possiamo non riconoscere che vale la pena di impegnarsi attivamente sul fronte quantitativo perché ciò risponde all’interesse di tutti, è anche conforme al principio di economia processuale contenuto nell’art. 111 della Costituzione e soprattutto impedisce il peggioramento della “qualità” delle decisioni, che non sarebbe certamente un buon traguardo.

E anche per questa operazione, sarebbe utile il coinvolgimento dell’avvocatura pure per quanto riguarda lo stile di redazione dei ricorsi, al fine di: 1) assicurare una agevole comprensione delle censure; 2) rendere partecipi gli avvocati della c.d. “rivoluzione della sintesi”, che i giudici della Corte di cassazione da tempo stanno cercando di mettere in pratica, anche per meglio adeguarsi al principio della ragionevole durata del processo; 3) ricordare che la durata irragionevole del processo, oltre a danneggiare di per sé la parte che ha ragione secondo l’insegnamento di Chiovenda, danneggia tutti i cittadini italiani, perché è fonte di pesanti voci di spesa per il bilancio dello Stato; 4) sottolineare lo stretto legame esistente tra la riduzione dei tempi processuali, una appagante risposta sintetica ad una domanda di giustizia e la formulazione di tale domanda in termini altrettanto chiari e sintetici; 5) consentire anche al pubblico di comprendere meglio come è organizzato il lavoro dei magistrati e degli avvocati che operano presso la Corte di cassazione.

Non va, del resto, dimenticato che le Corti di Strasburgo e Lussemburgo, nonché la maggior parte delle Corti supreme europee e la Corte suprema USA, sono dotate di specifiche istruzioni per l’accesso che contengono regole molto puntuali per la redazione dei ricorsi e delle memorie, per il modo in cui accludere gli allegati nonché per il deposito degli atti, arrivando addirittura, a volte, ad indicare il numero di righi che devono essere contenuti in ogni pagina, oltre a richiedere la obbligatoria numerazione delle pagine degli atti depositati (peraltro, molto utile e non sempre presente nei nostri ricorsi).

Ora, se è vero che tali istruzioni spesso risultano eccessivamente analitiche, e anche evidente che da questo eccesso non si può passare alla totale assenza di punti di riferimento stilistici.

A questa logica risponde l’iniziativa del Primo Presidente Santacroce di inviare una lettera al Presidente del Consiglio Nazionale Forense, Guido Alpa, onde ottenerne la collaborazione per orientare gli avvocati a presentare ricorsi più sintetici e contenuti nella lunghezza.

Si tratta di una iniziativa molto significativa, perché è la prima volta che la Corte di cassazione fornisce suggerimenti operativi sulle modalità di stesura dei ricorsi, mettendo a disposizione degli avvocati una serie di regole il cui rispetto è finalizzato ad aumentare la “forza di impatto” della impugnazione.

Purtroppo, al momento, la suddetta iniziativa non ha prodotto i risultanti sperati soprattutto a causa del fatto che i nostri numerosissimi avvocati (più di 250.000, di cui circa un terzo cassazionisti) non riconoscono al Consiglio nazionale forense un ruolo di rappresentanza dei numerosi Consigli dell’ordine territoriali (per la precisione, al momento: 166) esistenti. Sicché qualsiasi modifica operativa concordata dovrebbe, allo stato, implicare il coordinamento con tutti tali Consigli territoriali e questo è un altro segno della complicatezza del nostro sistema.



[1]Discorso tenuto l’8 marzo 2012 al Quirinale, in occasione della celebrazione della Giornata internazionale della Donna in www.quirinale.it

Ultima modifica il 06 Luglio 2014