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DIA E SCIA: EVOLUZIONE STORICO-NORMATIVA E RIFLESSIONI ALLA LUCE DELLE MODIFICHE APPORTATE DALLA L. N. 124/2015 (C.D. LEGGE MADIA)

by Dott. Niccolò Maria D'alessandro on06 Maggio 2016

L’art. 19 l. n. 241/1990 è stato oggetto, nel tempo, di plurimi interventi di riforma. L’attuale riforma Madia

 – l. n. 124/2015 – si è occupata di modificare l’istituto della Scia (segnalazione certificata di inizio attività) in precedenza introdotto in luogo della Dia (dichiarazione inizio attività).

Per poter comprendere al meglio la riforma attuata dal legislatore con l. n. 124/2015 occorre analizzare l’istituto della previgente DIA alla luce della nota sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 15/2011[1], la quale è intervenuta nell’acceso dibattito relativo alla natura giuridica della stessa DIA.

Secondo un primo ed ormai superato orientamento minoritario (non accolto dall’Adunanza Plenaria del 2011), la DIA veniva considerata come un modulo di semplificazione procedimentale che consentiva al privato di ottenere un titolo abilitativo costituito da un’autorizzazione implicita di natura provvedimentale. Il privato otteneva il titolo abilitativo per effetto del decorso del termine previsto dalla legge in base al quale la P.A. poteva adottare un provvedimento di divieto.

La norma (così come modificata dalla l. n. 80/2005) prevedeva, infatti, che l’attività liberalizzata potesse avere inizio non immediatamente dopo la presentazione della dichiarazione (a differenza di quanto avviene oggi con la SCIA), dovendo decorrere dalla stessa un termine di trenta giorni, all’interno del quale il privato poteva esercitare l’attività dichiarata comunicando contestualmente all’amministrazione l’intervenuta intrapresa dell’attività. Da tale seconda comunicazione decorreva un successivo secondo termine di trenta giorni, durante il quale la P.A., accertata la carenza dei presupposti e requisiti per l’esercizio dell’attività, poteva adottare e comunicare all’interessato il provvedimento inibitorio dell’ulteriore prosecuzione dell’attività, unitamente all’ordine di rimozione dei relativi effetti[2].

Quindi, vi era un primo spazio temporale di trenta giorni dalla presentazione della denuncia di inizio attività, durante il quale il privato non poteva iniziare a svolgere l’attività e dove la P.A. non poteva adottare provvedimenti di intervento; pertanto, tale primo termine, era dedicato all’espletamento di una prima verifica di natura essenzialmente documentale in cui la pubblica amministrazione era tenuta a compiere ai fini dell’eventuale esercizio del successivo potere di intervento. Mentre, nel successivo termine di trenta giorni, decorrenti dalla ricezione della comunicazione di effettivo inizio dell’attività richiesta dal privato, la P.A. poteva operare un esame più approfondito ed eventualmente esperire poteri inibitori volti ad impedire e/o vietare l’attività del privato, oppure poteri conformativi, consistenti nell’ordinare al privato, in caso di rilevanti difformità sanabili, di adeguare l’attività stessa a determinate prescrizioni impartitegli.

Veniva fatta salva, comunque, una volta scaduto il secondo termine per poter utilizzare poteri inibitori da parte della P.A., la possibilità per la stessa di agire in autotutela ex. artt. 21 quinquies e nonies della legge sul procedimento amministrativo.

Tale orientamento equiparava la DIA all’istituto del silenzio assenso ex. art. 21 l. n. 241/1990.

Secondo, invece, l’orientamento ormai consolidato (Cfr. Cons. St. Ad. Plen. n.15/2011) la DIA (oggi SCIA) rappresenta uno strumento di liberalizzazione dell’attività privata non più soggetta ad autorizzazione, mentre il silenzio assenso è un modello procedimentale semplificato, finalizzato al rilascio di un titolo autorizzatorio.

A differenza di quanto avveniva in passato, la legge conferisce alla denuncia (rectius, segnalazione) esperita dal privato natura di titolo abilitante all’avvio dell’attività, senza bisogno di ulteriori intermediazioni provvedimentali da parte della pubblica amministrazione.

In tal caso, la DIA veniva (oggi in qualità di SCIA) considerata come un atto soggettivamente ed oggettivamente privato, dove vi era una vera e propria autoresponsabilità dal parte del soggetto fornitore di dichiarazioni nei confronti della pubblica amministrazione.

Il privato, dunque, è titolare di un interesse legittimo oppositivo avverso l’eventuale potere inibitorio esperito dalla P.A. nei suoi confronti; mentre, il terzo, che potrebbe essere danneggiato dall’inerzia assunta dalla pubblica amministrazione per non aver esperito i poteri inibitori o di autotutela, è titolare di un interesse legittimo pretensivo all’esercizio del potere di verifica.

In virtù della riforma attuata dal legislatore con l. n. 122/2010, l’amministrazione ha a disposizione (a differenza di quanto avveniva in passato come sopra illustrato) il termine di sessanta giorni per procedere alla verifica della segnalazione e dei relativi documenti presentatigli dal privato; in caso di esito negativo, dovrà inibire l’attività intrapresa dal privato. Mentre la P.A., qualora nell’arco temporale di sessanta giorni a disposizione al fine di utilizzare poteri inibitori rimanga inerte, al privato sarà consentita la prosecuzione dell’attività, fatti salvi eventuali poteri di autotutela da parte della stessa pubblica amministrazione.

L’Adunanza Plenaria con sentenza n. 15/2011 (in un periodo appena antecedente la riforma avvenuta con d. l. n. 138/2011 di cui si dirà di qui a poco), si è interrogata sulla natura giuridica del silenzio formatosi a seguito dell’inerzia assunta della P.A. nel non aver adottato alcun potere inibitorio nell’arco di tempo di sessanta giorni previsto dalla legge.

La stessa Adunanza Plenaria aveva sostenuto che tale inerzia non potesse rientrare all’interno della categoria del silenzio inadempimento, poiché quest’ultimo non conclude un procedimento amministrativo, ma integra una inerzia improduttiva di effetti giuridici; infatti, il silenzio inadempimento è un silenzio non significativo e, quindi, privo di valore provvedimentale.

Secondo la Giurisprudenza, pertanto, il silenzio assunto dalla P.A. (essendo rimasta inerte nei sessanta giorni per poter esperire poteri inibitori) pone fine ad un procedimento diretto alla eventuale adozione di un provvedimento di divieto. Tale tipo di silenzio deve qualificarsi come un silenzio significativo negativo (cd. provvedimento per silentium) mediante il quale la pubblica amministrazione, esercitando in senso negativo il potere inibitorio, riscontra che l’attività è stata dichiarata in presenza dei presupposti di legge e, quindi, decide di non impedire l’inizio o la protrazione dell’attività dichiarata.

Pertanto, prima della riforma avvenuta con d. l. n. 138/2011 (la quale ha introdotto all’interno dell’art. 19 l. n. 241/1990 il comma 6 ter.), il terzo danneggiato dal provvedimento per silentium adottato dalla PA, poteva agire in via giudiziale per la tutela dell’interesse pretensivo in capo ad esso.

Egli, infatti, poteva avanzare un’azione di annullamento ex. art. 29 c.p.a. avverso il silenzio significativo negativo e, contestualmente, esperire un’azione di condanna volta ad ottenere una pronuncia che imponesse alla P.A. l’adozione di quel provvedimento inibitorio che secondo il terzo avrebbe dovuto utilizzare nei sessanta giorni di tempo che essa aveva a disposizione.

In alternativa, prima della scadenza del termine di sessanta giorni, il terzo danneggiato dall’atteggiamento inerte assunto dalla P.A., poteva avanzare un’azione di accertamento, finalizzata a far dichiarare la assenza dei presupposti legittimanti l’adozione delle DIA o SCIA. In questo caso, il giudice, prima della scadenza del termine di sessanta giorni, non avrebbe potuto pronunciarsi sul merito della domanda (cfr. art. 34 co. 2 c.p.a.), mentre avrebbe potuto accogliere un’eventuale istanza di misura cautelare ante causam; infatti, una volta perfezionatosi il provvedimento per silentium, l’azione di accertamento si sarebbe convertita automaticamente in domanda di impugnazione del provvedimento tacito senza la necessaria proposizione di motivi aggiunti ex. art. 43 c.p.a.

Con il d. l. n. 138/2011 è mutata considerevolmente la tutela del terzo a fronte dell’inerzia assunta dalla P.A. per l’adozione dei poteri inibitori. Infatti, il relativo decreto, ha introdotto il comma 6 ter il quale recita che “la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2, 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104”.

Come si può evincere chiaramente, il terzo non potrà più esperire come in precedenza l’azione di annullamento ex. art. 29 c.p.a. e di condanna, bensì unicamente l’azione avverso il silenzio ex. art. 31 c.p.a.

Quindi, vero è che la denuncia avanzata dal privato non costituisce un provvedimento tacito direttamente impugnabile, ma il silenzio che si forma a seguito dell’atteggiamento inerte assunto dalla pubblica amministrazione è un silenzio non significativo e, dunque, impugnabile esclusivamente ex artt. 31 e 117 c.p.a.[3]

Resta fatta salva, comunque, la possibilità per il terzo di impugnare in via ordinaria i provvedimenti espressi adottati dalla PA a seguito di un’istanza sollecitatoria o di ordine giudiziale.

In precedenza si è detto che la pubblica amministrazione, scaduti i sessanta giorni per poter esperire i poteri inibitori, avrebbe potuto agire in autotutela utilizzando gli strumenti della revoca (art. 21 quinquies l. n. 241/1990) e dell’annullamento d’ufficio (art. 21 nonies l. n. 241/1990) comma 3 della legge sul procedimento amministrativo.

Con la riforma n. 124/2015 il legislatore ha modificato i commi 3 e 4 l. n. 241/1990, prevedendo al comma 4 che “ decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti di cui al comma 3, primo periodo, ovvero di cui al comma 6-bis, l’amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal comma 3 in presenza delle condizioni previste dall’art. 21 nonies”. Muovendo da una interpretazione letterale di codesto articolo, si evince chiaramente che una volta scaduto il termine di sessanta giorni per poter esperire poteri inibitori, la PA può comunque agire in autotutela ex. art. 21 nonies l. n. 241/1990.

L’art. 21 nonies è stato anch’esso modificato dalla l. n. 124/2015, la quale ha aggiunto al comma 1 che il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d’ufficio entro un determinato termine. Infatti, dopo le parole “entro un termine ragionevole” si afferma testualmente: “comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’art. 20”.

Quindi è stato previsto un termine di diciotto mesi entro cui la pubblica amministrazione può agire in autotutela utilizzando lo strumento dell’annullamento d’ufficio ex. art. 21 nonies l. n. 241/1990.

Tuttavia la norma non chiarisce quando iniziano a decorrere i diciotto mesi.

Secondo una interpretazione logica, i diciotto mesi inizierebbero a decorrere una volta scaduti i sessanta giorni utili per la pubblica amministrazione al fine di poter utilizzare i relativi poteri inibitori.

Inoltre, è legittimo domandarsi quando i diciotto mesi iniziano a decorrere qualora l’eventuale determinazione espressa con cui la pubblica amministrazione, a seguito dei controlli effettuati, affermi la sussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’attività privata prima della scadenza del termine di sessanta giorni; sul punto, probabilmente, vi saranno pronunce favorevoli a rinvenire il dies a quo dei diciotto mesi dal momento della determinazione affermativa emanata dalla P.A., mentre altre pronunce faranno decorrere i summenzionati termini, comunque, alla scadenza dei sessanta giorni.

In tal caso, la PA potrà, quindi, sempre utilizzare l’annullamento d’ufficio, previa una valutazione degli interessi pubblici in gioco che giustifichino l’inibizione della attività del privato.

E’ stato, altresì, introdotto all’art. 21 nonies il comma 2 bis il quale recita :“i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci  per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 28 Dicembre 2000, n. 445”.

Il riferimento al “giudicato” lascia intendere che la pubblica amministrazione possa agire in autotutela – annullando d’ufficio quel determinato provvedimento amministrativo – anche molto tempo dopo l’adozione dell’atto: infatti, sarà necessario verificare con la massima attenzione il rispetto del criterio di proporzionalità insito nel principio del “termine ragionevole”.

Pertanto, la soppressione della specifica disposizione originariamente contenuta ex art. 19  comma 3 si connette alla previsione di una regola generale più ampia, ora racchiusa nell’art. 21 nonies, comma 2 bis.

L'art 6 della l  n.124/2015 pone un termine certo e breve (diciotto mesi) per l'esercizio del potere di autotutela decisoria con riferimento all'annullamento, al silenzio assenso,  alla SCIA, al potere cautelare generale di sospensione degli atti amministrativi.

Il termine certo e breve per l'esercizio del potere è certamente incompatibile con la teorizzazione di un potere amministrativo a cura dell’interesse pubblico immanente ed inesauribile (così come teorizzato da Benvenuti), ma è evidente che la norma affermi la prevalenza dell'interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici degli operatori economici rispetto all'interesse ritenuto ormai non più primario a che sia innanzi tutto la stessa PA a dovere assicurare la legittimità della propria azione.

Viene, così, rinforzata la stabilità dell'efficacia degli atti amministrativi, senza che ciò vada a scapito o detrimento della garanzia di legittimità degli stessi, rimanendo ferma ed impregiudicata la possibilità di tutela giurisdizionale.

La norma tende a stabilizzare l'efficacia dell'atto amministrativo in ragione della certezza dei rapporti giuridici laddove questo - tra gli atti dei pubblici poteri - è sempre stato quello più debole sotto questo profilo: subordinato alla legge, annullabile dal giudice, annullabile e modificabile dalla stessa autorità amministrativa.

Inoltre, il previgente comma 3 ex. art. 19 l. n. 241/1990 faceva espresso riferimento (come già ricordato) anche all’utilizzo dell’istituto della revoca ex art. 21 quinquies, oltre che dell’annullamento d’ufficio.

Come si può evincere da una lettura del nuovo 4 comma (il quale ha interamente modificato il precedente comma 3), il legislatore, volutamente o meno, ha omesso l’istituto della revoca tra i poteri esperibili dalla P.A. una volta scaduti i termini per l’utilizzo dei poteri inibitori.

Con questa scelta il legislatore ha chiaramente escluso dalla SCIA ogni valutazione discrezionale dell’interesse pubblico. L’esclusione della revoca tra i provvedimenti adottabili in tema di SCIA merita alcune considerazioni.

Come è noto, i poteri di autotutela amministrativa (nel caso di specie revoca ed annullamento d’ufficio) rientrano all’interno del potere discrezionale dalla pubblica amministrazione e, pertanto, c’è da chiedersi se sia stata corretta la scelta del legislatore di omettere la revoca tra i poteri di controllo ex post dalla stessa P.A.

Perché precludere l’utilizzo della revoca, istituto previsto espressamente dalla legge sul procedimento amministrativo? Il legislatore, così facendo, ha fortemente limitato il potere discrezionale in capo alla pubblica amministrazione, essendo ormai per così dire “limitata” unicamente all’utilizzo dell’annullamento d’ufficio ex art. 21 nonies. Non si può, quindi, parlare di discrezionalità piena della P.A., ma di una discrezionalità  per così dire “limitata” nell’utilizzo dei poteri inibitori.

Qualora, per sopravvenuti motivi di interesse pubblico, la P.A., nell’ipotesi  di mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento della adozione del provvedimento o nell’ipotesi di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, adotti comunque l’istituto della revoca allo scadere dei sessanta giorni, saremo di fronte a casi di violazione di legge ex art. 21 octies l. n. 241/1990 oppure la giurisprudenza non condannerà la P.A. ritenendo implicitamente applicabile la revoca tra i poteri inibitori esperibili dalla stessa pubblica amministrazione, nonostante la evidente omissione da parte del legislatore di inserire la revoca nel nuovo art. 19 comma 4 l. n. 241/1990?


[1]Cfr. Ad. Plen. Cons. St. n. 15/2011

[2]In tal senso R. GAROFOLI – G. FERRARI, Manuale di diritto amministrativo,  VII Ed., 2014.

[3]Cfr. Ex multis, TAR Lombardia, n. 4799/2014.

Ultima modifica il 06 Maggio 2016