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Pubblicato in Altri diritti

Giornalismo responsabile: Corte EDU, Brambilla e altri c. Italia

by Avv. Valentina Picone on19 Gennaio 2017
La libertà di espressione rappresenta la più alta manifestazione dei diritti primari e fondamentali che ha traghettato gli Stati moderni verso la società della comunicazione. 
L’avvento delle tecnologie informatiche, poi, ha portato a compimento la metamorfosi della realtà sociale per cui le ultime sacche di emarginazione dei flussi di sapere, conoscenze e opinioni sono convogliati nell’oblio della memoria senza confini della rete. In questo contesto, l’informazione e, con essa, il giornalismo, rappresentano il tratto caratteristico delle nuove democrazie che, in assenza di una chiara regolamentazione in materia, è lasciata alla difesa dell’indipendenza intellettuale. 
 
Uno dei terreni di scontro più aspri in materia è - da sempre - quello delle intercettazioni, istituto sul quale gravita un dubbio ancestrale: restringere o ampliare la forbice di questo mezzo di ricerca della prova. Nel corso dell’attuale legislatura, con l’approvazione del DDL S.2067 sulla riforma del processo penale si è, nuovamente, accesa la protesta del comitato promotore “No Bavaglio 3”, fotocopia di quanto accaduto nelle precedenti legislature (2010, 2011), contro le regole che avrebbero l’intento di «prevedere disposizioni dirette a garantire la riservatezza» e che s’intrecciano, soprattutto, nelle dinamiche del processo penale; nell’attuale sistema, come è noto, alla segretezza degli atti di indagine fino a quando l’indagato non può averne conoscenza (non oltre la chiusura delle indagini preliminari), si aggiunge un importante divieto di pubblicazione (art. 114 c.p.p.) che opera in regime assoluto, in caso di atti coperti da segreto, e temperato, quando l’atto è ostensibile da parte dell’indagato (fermo restando che non è pubblicabile l’atto in sé ma il contenuto dell’atto). Queste garanzie del giusto processo si scontrano, inevitabilmente, con il diritto di informazione. Si pensi alla pubblicazione del contenuto delle intercettazioni, alla lettura di stralci di conversazioni private nel corso dei “processi televisivi” sulle vicende di cronaca giudiziaria: quando il diritto di informazione deve cedere il passo alla tutela della presunzione di non colpevolezza? il rispetto della “riservatezza processuale”, alla luce dei processi “lumaca”, non rischia di collocare nel purgatorio dell’attesa il diritto d’informazione?
 
Tra i temi più caldi della riforma, si segnala l’art 30 DDL S.2067 che prevede che costituisca delitto, punibile con la reclusione non superiore a quattro anni, la diffusione, al solo fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui, di riprese audiovisive o registrazioni di conversazioni, anche telefoniche, svolte in sua presenza ed effettuate fraudolentemente. La registrazione fonografica intesa come memorizzazione di un fatto storico, anche se svolta ad opera del privato (che sia partecipe o che vi abbia diritto ad assistervi), in realtà, è utilizzabile ai fini probatori come prova documentale (salvo eventuali divieti di pubblicazione del contenuto); per cui, la nuova fattispecie andrebbe a colpire la diffusione di tali attività in maniera fraudolenta, finalizzate ad arrecare danno all’immagine e alla reputazione altrui; sotto questo aspetto, la novella non sembrerebbe minare il diritto di cronaca e, infatti, si prevede altresì che la punibilità è esclusa quando le registrazioni o le riprese sono utilizzate nell’ambito di un procedimento amministrativo o giudiziario o per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca. Previsione quest’ultima, in linea con gli intendimenti della Corte EDU (sentenza 24 febbraio 2015, Haldimann e altri c. Svizzera) che ha affermato che  la registrazione fonografica di un colloquio svolta ad opera dei giornalisti per mezzo di una registrazione o videoregistrazione, anche segreta e nascosta, se finalizzata a fornire informazioni di interesse pubblico è perfettamente in linea con l’art 10 CEDU: la libertà d’espressione prevale, in questi casi, sul diritto al rispetto della vita privata. La pubblicazione del contenuto di questi documenti - sebbene non possano essere considerati “intercettazioni in senso tecnico” - da parte dei giornalisti, sarebbe in linea con gli orientamenti della Corte EDU, per cui non rappresenterebbe un reato ma è l’utilizzo distorto che segna il discrimine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è. Nel caso delle intercettazioni “tecniche” il giornalista è chiamato, altresì, ad un’importante valutazione deontologica che dipende unicamente dal diritto all’informazione su fatti di interesse pubblico ma nel rispetto dell’essenzialità dell’informazione; tuttavia, quando il narrato abbia ad oggetto una intercettazione non autorizzata, coperta da segreto, illegalmente acquisita si valuterà, caso per caso, la sussistenza di profili di responsabilità penale (ad esempio, art. 617 c.p. Cognizione, interruzione o impedimento illeciti di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche; art. 623-bis c.p. Altre comunicazioni e conversazioni) e l’eventuale connivenza dei pubblici ufficiali (art. 326 c.p. Rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio).
 
Per queste ragioni, l’assenza di censure e l’incontrollabilità dei canali di interazione sociale sono, da sempre, oggetto di attenzione da parte dello Stato affinché il diritto all’informazione vada determinato in riferimento ai principi della Costituzione, delle decisioni e dei principi adottati con le sentenze della CEDU a tutela della libertà di stampa e del diritto dei cittadini all’informazione, richiamati tra gli intenti del DDL S.2067 (cfr., Servizio Studi Senato, Nota Breve, N. 126 - agosto 2016).
Su queste premesse s’inserisce la pronuncia della Corte EDU del 23 giugno 2016 che scaturisce da una vicenda che ha coinvolto alcuni giornalisti che, intercettando una conversazione del nucleo operativo dei carabinieri su un’indagine riguardante lo stoccaggio di armi illegali, si trovarono sul luogo del dei fatti; la perquisizione dell’auto dei predetti portò al rinvenimento di due apparecchi ricetrasmittenti a modulazione di frequenze capaci di intercettare le radiocomunicazioni delle forze dell’ordine. Accusati di installazione illegale di apparecchi finalizzata all’intercettazione di comunicazioni e di avere acquisito le comunicazioni sopra menzionate (artt. 617 e 623-bis c.p.), vengono assolti in primo grado sulla base dell’assunto che le suddette comunicazioni non rientrassero nel conversazioni protette dall’art. 15 Cost: le conversazioni erano state trasmesse su frequenze in chiaro e non potevano essere considerate come riservate, perciò avevano agito nell’ambito del loro lavoro di giornalisti, nel rispetto dell’art. 51 c.p. e della libertà di stampa. Il PM, di diverso avviso, proponeva appello argomentando la natura riservata delle comunicazioni corroborata dal fatto che si trattasse di indagini soggette all’obbligo di riservatezza. I giudici d’appello ribaltano l’esito del giudizio e condannano i giornalisti sulla base della considerazione che le comunicazioni tra membri delle forze dell’ordine nell’esercizio delle loro funzioni sono di per sé riservate e che l’accesso alle loro frequenze è, comunque, vietato. La Cassazione confermerà tali assunti affermando che il diritto di informare può prevalere sugli interessi pubblici tutelati dalla legge penale in un caso eventuale diffamazione, ma non quando il narrato sia frutto di un’intercettazione illecita delle comunicazioni delle forze dell’ordine. I ricorrenti, a questo punto, adiscono la Corte EDU lamentando una lesione al diritto di libera espressione e del diritto di cronaca sulla base dell’assunto che le perquisizioni cui erano stati sottoposti costituissero un’ingerenza sproporzionata nella loro libertà di espressione, in particolare, per quanto riguarda l’accesso alle informazioni. Il Governo italiano, d’altro canto, osservava che in gioco vi erano la protezione della sicurezza nazionale, la difesa dell’ordine e la prevenzione del crimine che rendeva illegittima l’interferenza dei giornalisti. 
 
I giudici di Strasburgo a questo punto, richiamano principi già consolidati sull’esegesi della libertà di informazione ispirata ad un giornalismo «responsabile». I giornalisti, al pari di ogni cittadino EU, devono agire in buona fede in modo da fornire informazioni precise e attendibili, nonché adottare una lecita condotta nei confronti delle autorità nell’esercizio delle loro funzioni (cfr., sentenza del 17/12/2014, Causa Pentikäinen c. Finlandia). Non è ammissibile una dilatazione eccessiva del concetto di libertà di espressione ex art. 10 CEDU, in quanto sua ratio legis non è quella di offrire ai giornalisti una tutela inattaccabile ma di garantire che nel bagaglio dei diritti fondamentali EU venga assegnato un ruolo fondamentale ai media in una società democratica. Ciò è reso ancora più esplicito dallo stesso paragrafo 2 dell’art. 10 che pone limiti dell’esercizio di tale libertà e che restano validi anche quando si tratta di riportare nella stampa questioni serie di interesse generale. La Corte EDU offre, così, una lucida disamina dei fatti riuscendo ad operare un distinguo tra il bene protetto dall’art. 10 CEDU e il modus attraverso cui si esercita tale diritto. Insomma, se la notizia di un traffico illegale di armi si presta, oggettivamente, ad essere destinataria di un patrimonio conoscitivo collettivo, il dovere di ricerca del giornalista non può spingersi fino all’offesa di un bene di altrettanto valore ovvero la riservatezza delle comunicazioni scambiate tra gli operatori delle forze dell’ordine e finalizzate alla tutela della sicurezza nazionale. Per questi motivi, dichiara che non vi è stata violazione dell’art. 10 CEDU.
 
Alla luce degli scontri politici e sociali, dei contrasti interpretativi in materia, l’unica certezza che sembra emergere è che la strumentalizzazione del diritto di informazione che si traduca in comportamenti illeciti piuttosto che arrecare beneficio alla collettività deve essere bandita; a tal proposto, si ricordi che la Corte EDU ha affermato che gli Stati sono tenuti ad adottare adeguate misure per garantire una sicura custodia delle intercettazioni telefoniche depositate nel fascicolo processuale, in caso contrario, la responsabilità è dello Stato ed è certa una violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che assicura il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Se si realizza una pubblicazione sugli organi di stampa di stralci di intercettazioni, attinte da un fascicolo e coperte da segreto, la responsabilità è dello Stato che non adotta misure per garantire la segretezza dei fascicoli e per impedire fughe di notizie (sentenza del 3 febbraio 2014, Apostu contro Romania).
 
Sull’inopinabile convinzione che è impossibile predisporre un sistema in perfetto equilibrio, l’auspicio è che il buon senso possa ispirare al meglio il legislatore affinché le nuove regole de iure condendo non si traducano in passivi rappezzi normativi ma tutelino davvero il patrimonio conoscitivo e le libertà dei singoli fino al limite della libertà altrui, risultando così funzionali alle esigenze della difesa della sicurezza nazionale nel rispetto della democrazia. 
 
Ultima modifica il 08 Febbraio 2017