L’intervento normativo è volto a contrastare i casi di “ medicina difensiva”, pratica ormai diffusa nel settore sanitario, nell’ambito della quale, i medici tendono a prescrivere ai pazienti esami e controlli di scarsa utilità al solo fine di preservare la propria posizione in caso di esiti clinici infausti. Il ricorso sistematico a servizi aggiuntivi diagnostici o terapeutici non necessari (analisi, visite o trattamenti) incide significativamente sulle spese del Servizio Sanitario Nazionale ed è fenomeno al quale il legislatore ha cercato di porre un argine in un azione di concerto con gli operatori del settore.
Nel corso dei decenni il trattamento penale della responsabilità medica è stato del resto oggetto di una profonda evoluzione. Negli anni 70 era infatti dominante un approccio indulgente verso i sanitari, con l’estensione della clausola di cui all’ art. 2236 c.c. anche in sede penale, per cui l’operatività della stessa era destinata ai soli casi in cui la prestazione professionale comportasse la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, contenuta quindi nell’ambito del concetto di perizia. In seguito fu adottato un criterio più rigoroso, che precludeva l’impiego della norma civilistica in ambito penale, derubricando il grado della colpa a mero criterio di commisurazione della pena ex art. 133 c.p.
Con la legge 189 del 2012, legge di conversione del “Decreto Balduzzi, all’art. 3 del testo, veniva invece introdotta una disposizione, in base alla quale, veniva esclusa la responsabilità penale del terapeuta nell'ipotesi in cui il medico si fosse attenuto alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica: qualora, pertanto, il sanitario si fosse attenuto alle linee-guida egli poteva essere ritenuto responsabile unicamente se fosse incorso in colpa grave, era da considerarsi esente da colpa se invece fosse incorso in colpa lieve.
Dopo alcuni anni dall’approvazione del “ Decreto Balduzzi”, l’articolo 6 della legge Gelli-Bianco (legge 8 marzo 2017, n. 24) ha tratteggiato un nuovo statuto penale della colpa medica, introducendo all’interno del codice penale l’articolo 590 sexies, rubricato “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario”.
La nuova disciplina prevede che la punibilità sia esclusa, senza alcun riferimento testuale al fatto che si versi in colpa grave o lieve, qualora, nell’esercizio della professione sanitaria: a) l’evento si sia verificato a causa di imperizia; b) siano state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida, come definite e pubblicate ai sensi di legge (all’art. 5), ovvero, in mancanza, le buone pratiche clinico-assistenziali (le quali, dunque, rispetto alla legge Balduzzi assumono una posizione suppletiva nei confronti delle linee guida); c) le raccomandazioni contenute nelle linee guida predette risultino adeguate alle specificità del caso concreto. La riforma introduce quindi una delimitazione dell’area della punibilità di potenziali soggetti attivi nell’ambito dell’ esercizio delle professioni sanitarie.
Tale novità legislativa ha fin da subito presentato molteplici profili di criticità.
Occorre inizialmente partire da un raffronto tra l’articolo 3 della Legge “Balduzzi”, che, come anticipato, nel 2012 aveva ridisegnato i contorni della responsabilità per colpa medica, e l’articolo 6 della riforma “Gelli-Bianco”, che proprio quella norma va oggi ad abrogare. Il “Decreto Balduzzi” aveva infatti previsto, come già detto, la depenalizzazione per la condotta dell’esercente la professione sanitaria, il quale nel corso della propria attività, avendo osservato le linee guida e buone pratiche mediche, fosse incorso in colpa lieve.
La disciplina approvata nel marzo del 2017 cancella innanzitutto la previgente distinzione tra colpa grave e colpa lieve e, al contempo, ridimensiona notevolmente la rilevanza delle c.d. buone pratiche accreditate: già parificate alle linee guida dal “decreto Balduzzi”, le stesse risultano oggi portatrici di un ruolo meramente sussidiario, in quanto destinate ad assumere rilievo soltanto in assenza di linee guida provviste dei presupposti individuati dalla stessa legge.
Del resto, proprio l’individuazione legislativa dei caratteri che le linee guida devono assumere per assumere rilevanza penale costituisce uno degli elementi cruciali della nuova normativa.
Il nuovo art. 590-sexies c.p. subordina infatti l’esclusione della punibilità al rispetto delle “raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge”, elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della Salute.
Le linee guida e gli aggiornamenti delle stesse elaborati dai soggetti sono integrati nel Sistema nazionale per le linee guida (SNLG), disciplinato nei compiti e nelle funzioni con decreto del Ministro della salute, da emanare, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano. All’ Istituto superiore di sanità pubblica è invece affidato il compito di pubblicare le linee guida e gli aggiornamenti delle stesse indicati dal SNLG, “previa verifica della conformità della metodologia adottata a standard definiti e resi pubblici dallo stesso Istituto, nonché della rilevanza delle evidenze scientifiche dichiarate a supporto delle raccomandazioni”.
Pur essendo stata foriera di notevoli profili di problematicità sui quali si dirà di qui a breve, la legge “Gelli-Bianco” ha certamente introdotto alcune novità.
La nuova normativa prevede, infatti, un obbligo generalizzato di adeguamento alle linee guida, anche se la prevista salvezza delle “specificità del caso concreto” limita l’imperatività dell’obbligo in questione. In definitiva, la disciplina pare imporre il rispetto delle linee guida laddove le contingenze concrete non suggeriscano di operare diversamente: il che rappresenta indubbiamente una novità, dal momento che l’inosservanza delle linee guida nella generalità dei casi viene (per la prima volta) a configurare la violazione di un obbligo di legge, presumibilmente suscettibile di rilevare in sede di accertamento della responsabilità civile ex art. 2043 c.c.
Con riguardo all’ iniziativa e la ratifica nell’ elaborazione delle linee guida, altro elemento introdotto di indiscutibile novità, un profilo che ha destato diverse critiche, ad opera di alcuni commentatori, è stato proprio l’assegnazione di un potere di controllo demandato all’Istituto superiore di Sanità. Si è infatti detto che, seppur volta ad appagare istanze di certezza invocate dai medici nel vigore della legge Balduzzi, la nuova normativa rischia di condurre all’avvento di una “medicina di Stato”, con ricadute negative sul progresso scientifico e sulla cura dei pazienti, poiché potrebbe vedersi scoraggiata la facoltà di adottare terapie mediche innovative, le quali, sebbene non ancora accolte tra le linee-guida, potrebbero risultare più efficaci, in determinati casi, rispetto ai trattamenti previsti all’interno delle stesse.
Il dibattito sulla colpa medica delineata dalla nuova legge Gelli-Bianco è stato significativamente arricchito dalla Cassazione, la quale per voce dei giudici della IV Sezione Penale, con sentenza del 20 aprile 2017 (dep. 7 giugno 2017), n. 28187, (Pres. Blaiotta, Rel. Blaiotta – Montagni), ha ricostruito per via interpretativa i margini applicativi dell’intervento legislativo e offerto risoluzione ai problemi intertemporali posti dalla novella.
Nell’analisi del testo normativo, i giudici rilevano innanzitutto una spiccata “incompatibilità logica” nel riferimento all’esclusione della punibilità nelle sole ipotesi in cui l’evento si sia verificato a causa di imperizia, sottolineando come, “si è in colpa per imperizia ed al contempo non lo si è, visto che le codificate leges artis sono state rispettate ed applicate in modo pertinente ed appropriato (…) all’esito di un giudizio maturato alla stregua di tutte le contingenze fattuali rilevanti in ciascuna fattispecie”.
Di fronte a tale apparente aporia, l’unica soluzione percorribile sembrerebbe quella di un’interpretazione letterale della fattispecie, che porti a escludere la punibilità “anche nei confronti del sanitario che, pur avendo cagionato un evento lesivo a causa di comportamento rimproverabile per imperizia, in qualche momento della relazione terapeutica abbia comunque fatto applicazione di direttive qualificate; pure quando esse siano estranee al momento topico in cui l’imperizia lesiva si sia realizzata”; esempio paradigmatico quello di un chirurgo che “imposta ed esegue l’atto di asportazione di una neoplasia addominale nel rispetto delle linee guida e, tuttavia, nel momento esecutivo, per un errore tanto enorme quanto drammatico, invece di recidere il peduncolo della neoformazione, taglia un’arteria con effetto letale”. Tale soluzione si porrebbe, però, ad avviso degli Ermellini, in contrasto sia con l’art. 32 Cost., che tutela il diritto alla salute, sia con il principio della responsabilità penale colposa e dei criteri cui ne è affidato l’accertamento (prevedibilità ed evitabilità dell’evento e causalità della colpa), in osservanza dei quali non è possibile “l’utilizzazione di direttive non pertinenti rispetto alla causazione dell’evento, non solo per affermare la responsabilità colpevole, ma neppure per escluderla”. Il percorso logico del giudice nomofilattico passa, allora, attraverso una ricognizione sulla natura delle linee guida. Le stesse mantengono un “contenuto orientativo, esprimono raccomandazioni” e “non indicano una analitica, automatica successione di adempimenti, ma propongono solo direttive generali, istruzioni di massima, orientamenti; e, dunque, vanno in concreto applicate senza automatismi, ma rapportandole alle peculiari specificità di ciascun caso clinico”.
Sulla base di tale assunto, la Corte di Cassazione traccia quindi un itinerario alternativo, partendo dalle coordinate normative (in particolare dall’art. 5) e dalle finalità della legge Gelli-Bianco, proprio in tema di linee guida. Così si rimarca, ancora una volta, il loro carattere “di direttive di massima, che devono confrontarsi con le peculiarità di ciascuna situazione concreta, adattandovisi” aventi l’obiettivo di “superare le incertezze manifestatesi dopo l’introduzione della legge n. 189/2012 a proposito dei criteri per l’individuazione delle direttive scientificamente qualificate” . Ciò ingenera nel sanitario, tenuto ad attenersi alle raccomandazioni (sia pure con gli adattamenti propri di ciascuna fattispecie concreta), “la pretesa a vedere giudicato il proprio comportamento alla stregua delle medesime direttive impostegli”, potendo il giudice avvalersi di “precise indicazioni in ordine all’esercizio del giudizio di responsabilità” .
Schematizzando, ai fini del riconoscimento della “causa di non punibilità” prevista dal nuovo art. 590-sexies:
a) sarà necessario riferirsi ad eventi che costituiscono espressione di condotte governate da linee guida accreditate sulla base di quanto stabilito all’art. 5 ed appropriate rispetto al caso concreto, in assenza di plausibili ragioni che suggeriscano di discostarsene radicalmente ;
b) le raccomandazioni generali dovranno essere “pertinenti alla fattispecie concreta”, previo vaglio della loro corretta attualizzazione nello sviluppo della relazione terapeutica, con particolare riguardo alle contingenze del caso concreto ;
c) non assumeranno rilevo (c1) condotte che, “sebbene poste in essere nell’ambito di relazione terapeutica governata da linee guida pertinenti ed appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo” ovvero (c2) siano connotate da negligenza o imprudenza e non da imperizia .
Permane, inoltre, la facoltà per il terapeuta di ricorrere ad apporti scientifici caratterizzati da elevata qualificazione nella comunità degli studiosi, sebbene non ancora recepiti nelle linee guida di cui al richiamato art. 5: tale possibilità è contemplata dallo stesso legislatore, visto che nell’art. 590-sexies c.p. vi è il riferimento, seppure in via sussidiaria, al rispetto delle “buone pratiche clinico-assistenziali”.
Con riguardo ai profili di diritto intertemporale, la Corte di Cassazione applica il criterio generale, attraverso un raffronto tra la nuova e la vecchia normativa, la prima abrogativa della seconda. Ai fini dell’ individuazione della legge in concreto più favorevole, pertanto, ad esito di tale raffronto strutturale, la legge Balduzzi – nell’elaborazione maturata nei pochi anni di vigenza - si presenta in termini senza dubbio di maggiore favore rispetto al nuovo articolo 590-sexies c.p., quantomeno riguardo alla limitazione di responsabilità ai soli casi di colpa grave; di conseguenza la precedente disciplina, ove pertinente, troverà ancora applicazione, ex art. 2, c.p., rispetto ai fatti anteriori, quale norma più favorevole.
L’intervento normativo del marzo 2017, rischiarato alla luce di tale approdo ermeneutico, pare quindi sostanzialmente ricondurre ad una rinnovata soggezione del medico al giudizio che governa la colpa in generale, naturalmente incentrato sull’accertamento della violazione di una regola cautelare da parte di un soggetto in grado di potersi uniformare al rispetto della medesima. Nell’ambito di tale valutazione la rilevanza delle linee guida è limitata ad una funzione di indirizzo del comportamento del sanitario, senza assumere efficacia dirimente in punto di responsabilità; qualora infatti l’inosservanza delle linee guida si traduca in un esito lesivo, può dirsi insorgere responsabilità soltanto ove l’azione risulti colposa a seguito del giudizio condotto alla stregua dei criteri ordinari; laddove invece il contegno inosservante conduca l’operazione ad un esito fausto, difetterà in radice l’elemento oggettivo dei delitti previsti dagli artt. 589 e 590 c.p.
Inoltre, l’abrogazione dell’art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158, risultato al quale si poteva pervenire anche senza dover necessariamente introdurre una disposizione come quella di cui all’art. 590-sexies c.p., preclude attualmente l’adozione di un trattamento di favore in precedenza accordato ai (pochi) casi in cui l’operatore sanitario osservante delle linee guida versasse in colpa lieve. Con tale operazione il legislatore ha di fatto prodotto, nell’assetto normativo rivisitato, un trattamento deteriore per la classe medica, a fronte della reviviscenza del rilievo penale di condotte rispettose delle raccomandazioni codificate, ma che risultino lievemente colpose: il che pare delinearsi , da un punto di vista intertemporale, in una nuova incriminazione ex art. 2, comma 1, c.p., insuscettibile di trovare applicazione ai fatti compiuti con colpa lieve dai sanitari negli anni di vigenza del decreto Balduzzi, che continueranno a beneficiare di quella peculiare delimitazione della sfera di punibilità prevista dal medesimo.
La legge “Gelli-Bianco” ha, da un lato, ristabilito un’uniformità tra il trattamento penale riservato al medico e quello riservato alla generalità degli individui, accogliendo le perplessità sollevate da quel versante dei critici che ritenevano irragionevole accordare un trattamento di favore ad un particolare ambito professionale, ma, inevitabilmente, ha destato i malumori dei fautori di una disciplina che predisponesse una specifica e chiara regolazione di un settore peculiare come quello medico. Il legislatore del 2017, nel delineare una presunzione relativa di non punibilità, pare comunque aver fallito lo scopo di istituire certezze in tema di colpa penale in ambito medico, sia in termini di garanzia della classe medica, sia in termini di attuazione del diritto alla salute, così come di efficace contrasto alla medicina difensiva.