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Pubblicato in Altri diritti

Sentenza n. 46170/2016 della Corte di Cassazione e reato di inquinamento ambientale

by Avv. Anna Maria Marinelli on03 Settembre 2017

Dopo numerosi e rilevanti casi di disastro ambientale in Italia, entra n vigore il 12 maggio 2015 la legge n. 68 che introduce significative modifiche al Codice penale ed al Testo unico sull’ambiente.

Fondamentale è l’introduzione dell’art. 452 bis cod.pen. che punisce con la reclusione da due a ei anni e con la mula da euro10.000 ad euro 100.000 chiunque, abusivamente, cagioni una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili (acque, aria, porzioni estese e significative di suolo e sottosuolo, ecosistema, biodiversità, flora e fauna).

Il vuoto normativo del legislatore nella definizione di tipiche norme incriminatrici nel codice penale per prevenire e reprimere reati ambientali, ha indotto ha la giurisprudenza di legittimità ad un’interpretazione ermeneutica. Nel caso di specie, la Corte di Cassazione aveva evidenziato come il fatto di voler ricondurre il disastro ambientale al cd. disastro innominato avrebbe generato numerosi problemi interpretativi e da qui la necessità di un intervento urgente del legislatore volto a disciplinare in modo autonomo specifiche fattispecie criminose.

Nemmeno la legge 68/2015, nonostante la previsione delle nuove ipotesi di reati in materia ambientale, non ha definito in modo preciso e puntuale le violazioni ambientali tanto da necessitare più volte il ricorso all’attività interpretativa dei giudici. Pertanto, la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 46170/2016, ha fornito una prima interpretazione giurisprudenziale del reato di inquinamento ambientale. In particolare, ha definito gli elementi su cui basare l’interpretazione di una norma incriminatrice caratterizzata da un’estrema genericità ed indeterminatezza.

La legge n. 68/2015, adeguandosi al contesto normativo europeo, in particolare alla direttiva 2008/99/CE, precisa come le attività che danneggino l’ambiente necessitino di sanzioni penale dotate di maggiore portata dissuasiva attraverso un adeguato sistema sanzionatorio. La direttiva europea rafforza il livello di protezione penale, obbligando l’introduzione di fattispecie incriminatrici di condotte lesive in concreto del bene ambiente, superando il reato di pericolo astratto come previsto nell’ordinamento italiano prima dell’introduzione della legge n.68/2015.

La riforma introdotta dal legislatore, attraverso l’introduzione nel Libro secondo – dopo i Delitti contro l’incolumità pubblica – del Titolo VI- bis dedicato ai Delitti contro l’ambiente, sia nell’ambito del Testo unico sull’ambiente dove è stata prevista una disciplina specifica per l’estinzione degli illeciti amministrativi e penali in materia ambientale. La specifica fattispecie criminosa dell’inquinamento ambientale è stata inserita dall’art. 452 bis c.p. e la sua forma aggravata, ossia i casi di morte e lesioni derivanti dall’inquinamento, all’art. 452 ter c.p.

L’art.5 del Codice dell’Ambiente definisce inquinamento “l’introduzione diretta o indiretta, a seguito di attività umana, di sostanze, vibrazioni, calore o rumore o più in generale di agenti fisici o chimici, nell’aria, nell’acqua o nel suolo, che potrebbero nuocere alla salute umana o alla qualità dell’ambiente, causare il deterioramento dei beni materiali, oppure danni o perturbazioni a valori ricreativi dell’ambiente, causare il deterioramento dei beni materiali, oppure danni o perturbazioni a valori ricreativi dell’ambiente o ad altri suoi legittimi usi”.

La sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 46170/2016 è piuttosto interessante perché si pone come la prima interpretazione di legittimità in materia di inquinamento ambientale e pertanto, fornisce tutti gli elementi per costruire in chiave interpretativa l’applicazione di una norma speciale che appare piuttosto generica ed indeterminata.

Il caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte riguardava la bonifica dei fondali di due moli del golfo di La Spezia ove, secondo l’accusa, la ditta incaricata – come documentato da diverse annotazioni del Corpo Forestale e della Capitaneria di Porto – non aveva rispettato le prescrizioni progettuali, provocando dispersione dei sedimenti nelle acque circostanti con conseguente trasporto degli inquinanti in esso contenuti “e tali da cagionare un deterioramento ad una compromissione significativa delle acque del golfo di La Spezia”. La Procura ed il GIP del Tribunale di La Spezia, ritenevano applicabile nel caso di specie, il reato di inquinamento ambientale e procedevano al sequestro del cantiere e di una porzione del fondale. La ditta ricorreva al Tribunale del Riesame che in accoglimento del ricorso, con ordinanza del 22 gennaio 2016, annullava il sequestro. In particolare, per il Tribunale, il riscontrato intorbidamento delle acque non sarebbe stato sufficiente ad integrare il reato contestato. Pertanto, per connotare la compromissione ed il deterioramento, sarebbe stata, pertanto, necessaria la tendenziale irreversibilità del danno, ritenuto insussistente nel caso di specie. Avverso tale pronuncia, il Procuratore della Repubblica ricorso per Cassazione, che lo accoglieva con annullamento e successivo rinvio dell’ordinanza. La Cassazione ha ritenuto non corretta l’interpretazione dell’evento di deterioramento con danno tendenzialmente irreversibile e ha segnalato la necessità di un giudizio più ampio.

Prima di valutare i principali requisiti del reato ambientale, la Suprema Corte discute se il giudice del riesame avesse o meno sorpassato l’ambito di cognizione attribuito dalla legge e dunque, sconfinato in un giudizio di merito come sostenuto dal Pubblico Ministero. Secondo la Corte di Cassazione, la valutazione della sussistenza del fumus commissi delicti demandata al giudice del riesame va effettuata “mediante una verifica puntuale e coerente delle risultanze processuali”. Pertanto, il Tribunale, previa completa verifica, sulla base degli elementi a sua disposizione, ha fatto un buon uso di tali principi, rilevando l’assenza di una compromissione o di un deterioramento consistente e qualificabile, sulla base dei dati disponibili e sotto il profilo del fumus del reato.

La Cassazione si sofferma sul concetto di abusività della condotta, pur non essendo oggetto di contestazione, poiché si era trattato certamente di attività abusiva in quanto effettuata in violazione delle prescrizioni imposte dal progetto di bonifica. Pertanto, la condotta si considera abusiva qualora si svolga continuamente nell’inosservanza delle prescrizioni delle autorizzazioni, “il che si verifica non solo allorché tali autorizzazioni manchino del tutto (cosiddetta attività clandestina), ma anche quando esse siano scadute o palesemente illegittime e comunque non commisurate al tipo di rifiuti ricevuti, aventi diversa natura rispetto a quelli autorizzati”. Secondo la Corte, questi principi possono applicarsi anche al reato di inquinamento, aggiungendo che può parlarsi di una “clausola di illiceità espressa”, equivalente a quella introdotta dalla direttiva 2008/99/CE che subordina l’obbligo di incriminazione di determinate condotte che siano illecite. Secondo la Cassazione va considerato in senso ampio il concetto di condotta abusiva, comprensivo, non soltanto di un’attività posta in essere di violazioni di leggi statali o regionali – benché non strettamente attinenti al settore ambientale –ma anche di prescrizioni amministrative.

Nel caso di specie, comunque, il Tribunale del Riesame aveva accertato l’inosservanza delle prescrizioni amministrative finalizzate a contenere l’intorbimento ed inquinamento delle acque e sul punto la Corte di Cassazione ha ritenuto legittime tali osservazioni. Inoltre, il giudice di legittimità, individua, nel caso di specie, l’oggetto materiale del bene ambientale protetto nelle “acque in genere”, espressamente previsto dall’art. 452 bis c.p.: in particolare, evidenzia come, - a differenza del suolo e del sottosuolo in cui si parla di “porzioni estese o significative” ed analogamente all’aria – per la configurazione del delitto, l legge non richiede alcuna riferimento quantitativo o dimensionale.

In terzo luogo la Cassazione affronta in modo preciso e compiuto l’interpretazione dei concetti di compromissione e deterioramento. Ritiene, innanzitutto che non abbia rilievo la denominazione del reato di inquinamento ambientale che indica una “condizione di degrado dell’originario assetto ambientale” – né che compromissione e deterioramento possano essere letti alla luce di disposizioni non penali come quella di inquinamento e danno ambientale, contenute nel d.lgs. n. 152/2006. La Cassazione aggiunge “(…) che ove la legge n. 68/2015 ha inteso richiamare nozioni contenute nel d.lgs. 152/2006 lo ha fatto espressamente, diversamente dal caso di specie”. I due concetti di compromissione e deterioramento, secondo la Corte di Cassazione, sono legati dalla congiunzione disgiuntiva “o”, con funzione di collegamento tra di essi sostanzialmente equivalenti negli effetti. Nel caso di compromissione, l’alterazione rappresenterebbe una condizione di rischio o pericolo che potrebbe definirsi di “squilibrio funzionale”; invece, in quello di deterioramento, inteso come modifica dell’originaria consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema, si identificherebbe in uno “squilibrio strutturale” caratterizzato da un decadimento di stato o della qualità di questi ultimi. Pertanto, diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale di La Spezia, secondo il ragionamento della Corte di Cassazione, non assume rilievo l’eventuale reversibilità del fenomeno inquinante: l’irreversibilità del danno.

In ultimo, l’ambito di operatività dell’art. 452 bis c.p., è delimitato secondo il ragionamento della Corte di Cassazione, dall’ulteriore precisazione che la compromissione ed il deterioramento debbano essere “significativi e miserabili”: in tal senso, si escludono i fatti di minor rilievo così come, in senso opposto ed esclude quelli di particolare gravità che integrano il reato di disastro ambientale. Infatti, la Corte di Cassazione, richiamando l’art. 300 del d.lgs. 152/2006, la condotta è significativa se denota incisività e rilevanza. Nel caso di specie, si era registrata, secondo l’accusa una moria di mitili collegata ad un’operazione di drenaggio effettuato in violazione delle prescrizioni: ciò sarebbe bastato, dunque, in sede cautelare, ad ipotizzare una compromissione o deterioramento significativi della fauna. Il Tribunale del Riesame non aveva ritenuto che vi fosse stata la prova del nesso causale tra il drenaggio e la moria dei mitili in quanto quest’ultima era avvenuta in un periodo in cui il sistema di drenaggio risultasse più corretto, nel 2015, mentre in seguito, in presenza di gravi e ripetute violazioni delle prescrizioni non può essere riscontrata tale moria. In base a queste considerazioni, la significatività dovrebbe essere intesa unitariamente, di concerto con la gravità degli effetti prodotti, e non considerarla nella sua dimensione esclusivamente temporale.

La Cassazione approfondisce anche la nozione di misurabilità della condotta ossia se questa sia quantitativamente apprezzabile ed oggettivamente rilevabile. In tal senso, aggiunge che, in mancanza di espliciti riferimenti e rinvii a “limiti imposti da specifiche disposizioni o a particolari metodiche di analisi”, vada esclusa l’esistenza di un “vincolo assoluto” per il giudice correlato a parametri imposti dalla disciplina di settore, il cui eventuale superamento, non comporti necessariamente una situazione di danno o pericolo per l’ambiente, “(…) potendosi tra l’altro presentare casi in cui, pur in assenza di limiti imposti normativamente, tale situazione sia di macroscopica evidenza o, comunque, concretamente accettabile.” Tuttavia, tali parametri rappresentano in ogni caso un utile riferimento nel caso in cui possano fornire – considerando la discrasia tra gli standard prefissati e la sua ripetitività - un “elemento concreto di giudizio”. 

In tal modo, la Cassazione chiarisce i rapporti tra valori- soglia e nozione di pericolo o danno ai fini dell’inquinamento penalmente rilevante: il giudice deve fare riferimento alle soglie perché se vengono rispettate, non si integra il reato di inquinamento; se, invece, sono state superate ciò non costituirà prova del pericolo concreto o del danno, ma dovrà valutarlo, in concreto appunto, senza alcun automatismo e facendo riferimento anche alla gravità del danno ed alla sua eventuale ripetitività.

Al contrario, nel caso di specie, il giudice del riesame, secondo la Cassazione, aveva valutato solo quei dati fattuali “(…) astrattamente riconducibili alla condizione di irrimediabilità tendenziale del danno preventivamente individuata (…)”.

In definitiva, la Cassazione impone al giudice di merito – annullando con rinvio l’ordinanza – una valutazione dei dati acquisiti, non limitata ai soli effetti irreversibili: nel caso di specie, la valutazione sarà particolarmente complessa – basata prima sul sapere scientifico, poi su un giudizio di tipo giuridico – dato che occorrerà verificare ai fini di una esatta valutazione degli effetti di una condotta come realmente inquinanti. Quella di drenaggio, ad esempio, anche se svolta in violazione delle regole di contenimento, disperde in un’area più vasta ed in superficie sostanze prima contenute nel fondale, con conseguente intorbimento.