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IL TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI NELLE OPERAZIONI E-COMMERCE E DI MARKETING: ASPETTI CIVILISTICI E PENALISTICI
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Giornalismo responsabile: Corte EDU, Brambilla e altri c. Italia
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Natura giuridica delle fondazioni universitarie e giurisdizione: note a T.A.R. Pescara n. 236/16.

La sentenza in commento è assai interessante in quanto si occupa di un tema poco dibattuto quale è quello delle fondazioni universitarie. L’indagine, in particolare, nasce dalla necessità di comprenderne la natura al fine di valutare il giudice competente ai fini della nomina dei membri della governance del soggetto stesso.

1. La natura della Fondazione.

Il riconoscimento della natura pubblica di una persona giuridica vale ad individuare la collocazione della stessa in una posizione differenziata da quella propria dei soggetti privati, con la correlata assunzione di poteri e prerogative propri dei soggetti pubblici.

Proprio in relazione a ciò, il nostro ordinamento prevede, in forza della disciplina dettata dalla legge 20 marzo 1975, n. 70, che la costituzionee il riconoscimento di enti pubblici possono avvenire esclusivamente in forza di legge. E’ altresì pacifico, alla stregua dell’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale, che la volontà legislativa di connotare in termini pubblicistici una persona giuridica può essere esplicata, oltre che con una qualificazione espressa, anche con la previsione di indici sintomatici rivelatori della matrice pubblicistica dell’ente. Si deve poi sottolineare che, in virtù di una parimenti pacifica elaborazione pretoria, il mero requisito teleologico della finalizzazione dell’ente al perseguimento di scopi di interesse pubblico, non è condizione sufficiente per la sussunzione del soggetto nel novero degli enti pubblici, essendo all’uopo indispensabile la previsione legale di un regime giuridico di spessore pubblicistico (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 11 settembre 1999, n. 1156).

Applicando le coordinate ermeneutiche fin qui esposte al caso in commento, non v’è dubbio in merito alla natura non pubblica della fondazione (Corte Costituzionale, con la sentenza n. 267 del 22 luglio 2010) giacchè, nel caso di specie, non solo fa difetto l’espressa qualificazione dell’ente quale soggetto pubblico ma, al contrario, le medesime fonti confermano che trattasi di fondazione di diritto privato.

1.1. Il tema, tuttavia, risulta di indagine più complessa con riguardo alla necessità di valutare il giudice competente ai fini della nomina dei membri della governance del soggetto stesso.

Nell’ambito dell’applicazione del codice dei contratti tali Fondazioni verrebbero qualificate quale “organismo di diritto pubblico” e risulterebbero essere “amministrazione aggiudicatrice”. Ma tale qualificazione codicistica, legata al peculiare settore degli appalti, non può essere sufficiente per indagare la natura giuridica di tali enti. L’organismo di diritto pubblico diviene pubblica amministrazione non sempre e comunque (in maniera fissa e immutevole), ma solo nello svolgimento di quel tratto di attività esplicitamente sottoposto ad una disciplina di diritto amministrativo(arg. Cons. Stato, Sez. VI, 11 luglio 2016, n. 3043).

Il caso su cui ha indagato il T.A.R., allora, essendo più specificatamente riguardante la nomina di organi sociali di soggetti, è stato risolto appena qualche mese dopo la sentenza in commento dalle Sezioni Unite ove è stata colta l'occasione di definitivamente fugare ogni dubbio in ordine alla giurisdizione del giudice ordinario nelle controversie concernenti atti di nomina o di revoca degli organi sociali di società in house(1 dicembre 2016, n. 24591, Pres. Amoroso, est. Spirito).

La giurisprudenza finora consolidatasi (ci si riferisce, in particolare a Sez. un., nn. 7799/2005, 1235/2015 e 2505/2015) ha approfonditamente affrontato il tema attraverso un'analisi sostanzialmente riferita all'intero fenomeno delle società a parziale o totale partecipazione pubblica, per giungere alla conclusione che spetta al giudice ordinario conoscere della controversia avente ad oggetto sia l'impugnazione del provvedimento di nomina e revoca dei rappresentanti dell'ente pubblico presso una società per azioni partecipata parzialmente o totalmente dallo stesso ente, sia le conseguenti domande di tutela reale e risarcitoria.

Le decisioni - le cui argomentazioni conviene qui sinteticamente ricordare - hanno preso le mosse dall'osservazione che a favore dell'attribuzione al giudice ordinario assume rilievo decisivo l'art. 4 (che reca la rubrica: Riduzione di spese, messa in liquidazione e privatizzazione di società pubbliche), comma 13, quarto periodo, del d.l. 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini, nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito in legge, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 2012, n. 135, art. 1, comma 1, secondo cui "Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali".

Disposizione, questa, che elimina qualsiasi dubbio circa l'inquadramento privatistico delle società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici, la cui specifica disciplina sia contenuta esclusivamente o prevalentemente nello statuto sociale. Tale norma, infatti, ancorché introdotta in un provvedimento legislativo volto specificamente al contenimento della spesa pubblica (cosiddetta spending review), ha natura esplicitamente interpretativa e come tale efficacia retroattiva, si caratterizza quale clausola normativa ermeneutica generale (norma di chiusura) salvo deroghe espresse, ed impone all'interprete (il quale dubiti dell'interpretazione di disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica) di optare comunque per l'applicazione della disciplina del codice civile in materia di società di capitali.

Da questa premessa i menzionati precedenti hanno dedotto che la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché il Comune ne possegga, in tutto o in parte, le azioni, in quanto il rapporto tra società ed ente locale è di assoluta autonomia, al Comune non essendo consentito incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull'attività della società per azioni mediante l'esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina comunale presenti negli organi della società; con la conseguenza che è attribuita alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto la domanda di annullamento di provvedimenti comunali di non approvazione del bilancio e conseguente revoca degli amministratori di società per azioni di cui il Comune sia unico socio, costituendo gli atti impugnati espressione non di potestà amministrativa ma dei poteri conferiti al Comune dalle ordinarie disposizioni del codice civile; sicché la posizione soggettiva degli amministratori revocati (che non svolgono né esercitano un pubblico servizio) è configurabile in termini di diritto soggettivo, dovendo inoltre escludersi la riconducibilità di detta controversia al novero di quelle attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dal d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 33 novellato dalla l. 21 luglio 2000, n. 205, art. 7”.

La posizione dell’ente pubblico, hanno sottolineato le SS.UU., “all'interno della società è unicamente quella di socio di maggioranza, derivante dalla prevalenza del capitale da esso conferito; e soltanto in tale veste l'ente pubblico potrà influire sul funzionamento della società, avvalendosi non già dei poteri pubblicistici che non gli spettano, ma dei soli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina comunale presenti negli organi della società”.

2. Anche sotto altro profilo, poi, l'inquadramento privatistico delle società con partecipazione di enti pubblici è conforme agli orientamenti espressi sia dalla Corte di giustizia UE - che, con le sentenze Volkswagen (sentenza 23 ottobre 2007, nella causa C-112/05) e Federconsumatori (sentenza 6 dicembre 2007, nei procedimenti riuniti nn. C-463/04 e C-464/04), ha ritenuto collidenti con l'art. 56 del Trattato CE disposizioni che incidano sul principio della parità di trattamento tra gli azionisti - sia dalla Corte costituzionale che, con le sentenze n. 35 del 1992 e n. 233 del 2006 ha ricondotto al diritto privato le disposizioni sulla nomina e sulla revoca degli amministratori ed ha sottolineato che l'intuitus personae sotteso al rapporto di nomina degli amministratori esclude la rilevanza immediata dei principi di cui all'art. 97 Cost., comma 2 (buon andamento ed imparzialità).

La riconduzione della materia in questione alla disciplina civilistica è attuata oggi dal d.lgs. n. 175 del 2016 (ovviamente, inapplicabile ratione temporis alla fattispecie, ma che, a differenza del D.Lgs. n. 50/16 che ove vigente avrebbe dovuto dettare le regole dell’incanto, ben può essere richiamato al fine di individuare la linea interpretativa per l’individuazione della giurisdizione), del quale vanno particolarmente segnalate tre disposizioni. Quella del terzo comma dell'art. 1, secondo cui: "Per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali del diritto privato". Quella dell'art. 12 (Responsabilità degli enti partecipanti e dei componenti degli organi delle società partecipate), a norma della quale "I componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali, salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house". Quella dell'art. 14 (Crisi d'impresa di società a partecipazione pubblica), la quale non solo stabilisce che "Le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi", ma, soprattutto, testualmente menziona nell'ultimo comma la "dichiarazione di fallimento di una società a controllo pubblico titolare di affidamenti diretti", facendo così inequivoco ed esplicito riferimento alle società in house, che, appunto, sono le società titolari di affidamenti diretti (cfr. art. 16, 1° comma).

Disposizioni, queste, che non solo definitivamente esplicitano la riconduzione delle società a partecipazione pubblica all'ordinario regime civilistico ma, soprattutto, eliminano ogni dubbio circa il fatto che le società in house siano regolate dalla medesima disciplina che regola, in generale, le società partecipate, ad eccezione, quanto alle prime, della giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dai loro amministratori e dipendenti.

In siffatto contesto si può affermare che le società a partecipazione pubblica costituiscono, in ambito societario, una categoria nella quale sono comprese, in termini di specialità, le società (non solo partecipate, ma) controllate da enti pubblici e le società in house; sicché il principio generale dettato dal citato 3° comma dell'art. 1 è destinato a valere anche per le società in house, ove non vi siano disposizioni specifiche di segno diverso. Ed una disposizione specifica per le società in house si rinviene, nell'art. 12 che, come s'è visto, riguarda la giurisdizione in tema di azioni di responsabilità degli organi sociali, ma non anche per quel che attiene alle controversie in materia di nomina o revoca degli organi sociali designati dal socio pubblico”(1 dicembre 2016, n. 24591, cit.).

E ancora da ultimo, richiamando la citata sentenza del 2016, codeste Sezioni Unite hanno escluso che le controversie relative alle procedure per l’assunzione di personale dipendente delle società in house possano rientrare nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo: con ciò ribadendo la generalizzata attrazione di tali società alla cognizione del giudice ordinario, in virtù del “paradigma organizzativo societario” che le connota, con particolare riguardo alla materia della nomina o revoca degli organi sociali designati dal socio pubblico e con il limite eccezionale costituito dall’azione di responsabilità per danni arrecati dall’illegittimo comportamento degli organi sociali al patrimonio della società (Cass. civ., sez. un., 27 marzo 2017, n. 7759).

Sulla stessa linea è la posizione del Consiglio di Stato (Sez. V, 28 giugno 2012, n. 3820 e successivamente n. 655/13 ove si conferma il difetto di giurisdizione del G.A. sulla nomina di soggetti in seno al C.d.A. di Fondazioni universitarie quali “soggetti a partecipazione pubblico-privata”).

Più recentemente, inoltre, i Giudici di Palazzo Spada hanno avuto modo di affrontare, proprio con riferimento alle Università private, il tema della loro natura e dei loro obblighi rispetto al loro status, quanto meno in determinate situazioni, di ente pubblicigiungendo alla conclusione che debba escludersi la qualificazione delle c.d. libere Università in termini di ente pubblici”.

Tale conclusione è imposta, in primo luogo, dall’art. 33 Cost. che, al comma 1, riconosce la libertà di insegnamento, al comma 3, stabilisce il diritto di “enti e privati” di istituire scuole e istituti di educazione, e, all’ultimo comma, riconosce alle Università “il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”.

La citata previsione costituzionale comporta non solo che i privati possano promuovere l’istituzione di centri di istruzione, ma anche che a questi centri istituiti da privati debba essere garantita una natura sostanzialmente privata, per rispettare i principio di “autonomia ordinamentale” e di “libertà” che ad essi la Costituzione garantisce. L’art. 33 Cost. preclude, pertanto, alla legge di operare una sostanziale “pubblicizzazione” delle Università non statali, imponendo ad esse obblighi, anche in materia di trasparenza e pubblicità, preordinati ad introdurre una forma di controllo pubblicistico e collettivo, che contrasterebbe con la natura sostanzialmente privata che effettivamente le connota.

Lo stesso riferimento alle “leggi dello Stato” nell’art. 33, ultimo comma, Cost. non vale a fondare una riserva pubblica dell’istruzione universitaria, ma vale semmai a giustificare un intervento normativo sui criteri per la definizione dei corsi di laura e sui requisiti per la docenza, ai fini del conferimento, da parte delle Università non statali, di titoli di studio con valore legale.

A conforto di tale conclusione, assume rilievo, sempre in un’ottica di sistema l’art. 1 della legge 29 luglio 1991, n. 243 che stabilisce che le Università non statali legalmente riconosciute “operano nell’ambito delle norme dell’art. 33, ultimo comma, della Costituzione e delle leggi che le riguardano, nonché dei principi generali della legislazione in materia universitaria in quanto compatibili”. Tale disposizione avvalora la conclusione secondo cui le Università non statali legalmente riconosciute soggiacciono alla disciplina che ad esse fa espresso riferimento. L’applicazione ad esse della disciplina prevista per le Università statali può avvenire alla duplice condizione che si tratti di disciplina espressione di un principio generale della legislazione in materia universitaria (condizione positiva) e che il relativo principio sia compatibile con il rispetto del principio costituzionale del pluralismo e della libertà di iniziativa privata nel campo dell’istruzione (condizione negativa).

Nel caso che ci occupa entrambe le citate condizioni non risultano integrate: da un lato, infatti, la scelta di partner istituzionali non è espressione di un principio generale specificamente afferente alla materia universitaria; e dall’altro, e soprattutto, diversamente opinando, “tale disciplina implica l’introduzione di forme controllo (pubblicistico e collettivo) che contraddicono il principio costituzionale della libertà di iniziativa dei privati nel settore dell’insegnamento” (Cons. Stato, Sez. VI, 11 luglio 2016, n. 3043).

3. Né, infine, la natura di Fondazione di diritto privato muta con riferimento alla precipua partecipazione di partner pubblici anche controllanti.

L’esistenza di poteri statali di controllo e di vigilanza non può assumere rilievo decisivo in quanto si tratta di poteri comunque specificamente previsti da puntuali disposizioni legislative preordinate ad assicurare il corretto assolvimento, nel rispetto di adeguati standard qualitativi, del servizio di interesse generale cui le stesse Università sono preposte”, ma che non può trascendere sino all’onere del pubblico incanto per la scelta di un partner istituzionale.

“Del resto, l’impossibilità di desumere dalla mera esistenza di poteri di controllo e di vigilanza amministrativa la pubblicizzazione del soggetto vigilato e, dunque, la sua equiparazione all’ente pubblico, trova conferma nella considerazione che forme di controllo anche più significativo sono variamente previste nei confronti di enti la cui natura privatistica (e la cui esclusione dal campo di applicazione del decreto trasparenza) non è in discussione (si pensi, per fare solo qualche esempio, ai penetranti poteri di controllo amministrativo sulle fondazioni di diritto privato, o ai soggetti privati che operano nei c.d. mercati regolati, specie in materia di credito, risparmio ed assicurazione.

Il reclutamento del personale docente delle Università non statali secondo criteri analoghi a quelli del personale docente delle Università statali, con la previsione di requisiti omogenei nella docenza, è misura di garanzia degli standard qualitativi degli atenei non statali, e trova, quindi, specifica giustificazione nel servizio di interesse generale che esse svolgono, ma non basta per desumerne una integrale pubblicizzazione.

La presenza negli organi di governo delle Università non statali di soggetti designati dal MIUR non è, a sua volta, significativa, trattandosi di presenza marginale e non in grado di alterare le ordinarie dinamiche di gestione privata delle Università non statali”.

Né assume rilievo, come ampiamente prova a sostenere Pegaso nei suoi scritti, l’esistenza di fonti di finanziamento di natura pubblicistica, “atteso che anche sotto questo profilo si tratta di una quota di finanziamento quantitativamente esiguo, a fronte del prevalente finanziamento con capitali privati” (Cons. Stato, Sez. VI, n. 3043/2016, cit.).

3.1.   In ogni caso, pur a voler concedere una qualche rilevanza – rispetto a quanto qui d’interesse -  ad eventuali finanziamenti pubblici, gli stessi non sono idonei a mutare l’esistenza della giurisdizione in capo al G.O..

La natura pubblica delle risorse utilizzate, infatti, non può essere concettualmente scissa, né può mutuare, dalla natura autonoma della personalità giuridica di diritto della fondazione in quanto la stessa non perde la “natura di ent[e] privat[o] per il solo fatto che il […]capitale sia alimentato da conferimenti provenienti dallo Stato o da altro ente pubblico” (Sezioni Unite, sentenza n. 20075/2013); conseguenzialmente se ne deduce che le controversie inerenti accertamenti circa la legittimità delle operazioni - ivi compresa la ricerca sul mercato di un Partecipante istituzionale - compiute dalla Fondazione, non possono che rientrare nell’alveo della cognizione del giudice ordinario.

Sul punto basti evidenziare che anche le Sezioni Unite, con la sentenza n. 20075/2013, riguardante l’ipotesi di responsabilità degli amministratori di società di diritto privato partecipate da un ente pubblico, in caso di illegittima gestione dei fondi pubblici, ha disconosciuto l’esistenza della giurisdizione in capo alla Corte dei Conti, demandandola all’Autorità Giudiziaria Ordinaria.

 

In quel caso, infatti, nell’ipotesi (come nel caso di specie) di una fondazione con natura di persona giuridica privata, è stato chiarito che “ai fini del riparto di giurisdizione, non è rilevante il carattere soggettivo, quanto piuttosto la natura pubblica delle funzioni espletate e delle risorse finanziarie a tal fine adoperate. E’ certo che la Fondazione Federico II abbia natura di persona giudica privata. Essa ha, dunque, un proprio patrimonio, nel quale sono confluite anche risorse pubbliche, ma che ha assunto una propria autonomia. Ne consegue che l’A. [amministratore della società] non si è direttamente appropriato di finanziamento pubblici, ma ha tenuto comportamenti che hanno inciso sul patrimonio di una fondazione di diritto privato, come tale autonomo e separato da quello dell’’Ente pubblico che ha erogato in suo favore contributi e finanziamenti. E’ appena il caso di aggiungere, con riferimento alle finalità perseguite dalla Fondazione (la più ampia conoscenza e diffusione dell’attività degli organi istituzionale della Regione e dell’Assemblea in particolare, dei valori e del patrimonio culturale della Sicilia) che esse sono indubbiamente di interesse pubblico, ma non costituiscono delega di funzioni istituzionali proprie dell’Ente che ha conferito le risorse finanziarie” (cfr. Cass. SS.UU.  sent. n. 20075/2013).

Avv. Santi Delia

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