LA CORTE COSTITUZIONALE CONFERMA L’INESISTENZA DI POTERI LOCALI IN TEMA COVID
La Corte Costituzionale, con una sentenza di ampio respiro, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della Legge regionale della Valle d’Aosta, ha affrontato, in maniera sistematica, il regime dei poteri (Statali, regionali e locali) in momenti pandemici.
Lo Stato, difatti, aveva impugnato in via diretta innanzi alla Corte Costituzionale la Legge regionale sostenendo, in sintesi, che “non spetterebbe al legislatore regionale introdurre un meccanismo di contrasto all’epidemia che diverge da quello progettato dalla legge dello Stato, quale che sia in concreto il grado di siffatta divergenza”.
Secondo la Corte, “a fronte di malattie altamente contagiose in grado di diffondersi a livello globale, «ragioni logiche, prima che giuridiche» (sentenza n. 5 del 2018) radicano nell’ordinamento costituzionale l’esigenza di una disciplina unitaria, di carattere nazionale, idonea a preservare l’uguaglianza delle persone nell’esercizio del fondamentale diritto alla salute e a tutelare contemporaneamente l’interesse della collettività (sentenze n. 169 del 2017, n. 338 del 2003 e n. 282 del 2002).
Accade, infatti, che ogni decisione in tale materia, per quanto di efficacia circoscritta all’ambito di competenza locale, abbia un effetto a cascata, potenzialmente anche significativo, sulla trasmissibilità internazionale della malattia, e comunque sulla capacità di contenerla (…). Né si tratta soltanto di questo. Un’azione o un coordinamento unitario può emergere come corrispondente alla distribuzione delle competenze costituzionali e alla selezione del livello di governo adeguato ai sensi dell’art. 118 Cost., per ogni profilo di gestione di una crisi pandemica, per il quale appaia invece, secondo il non irragionevole apprezzamento del legislatore statale, inidoneo il frazionamento su base regionale e locale delle attribuzioni“.
Tale conclusione può dunque concernere non soltanto le misure di quarantena e le ulteriori restrizioni imposte alle attività quotidiane, in quanto potenzialmente fonti di diffusione del contagio, ma anche l’approccio terapeutico; i criteri e le modalità di rilevamento del contagio tra la popolazione; le modalità di raccolta e di elaborazione dei dati; l’approvvigionamento di farmaci e vaccini, nonché i piani per la somministrazione di questi ultimi, e così via. In particolare i piani di vaccinazione, eventualmente affidati a presidi regionali, devono svolgersi secondo i criteri nazionali che la normativa statale abbia fissato per contrastare la pandemia in corso“.
E’ profondamente errato, dunque, pensare di poter imporre misure diverse da quelle nazionali richiamando la peculiarità del proprio territorio.
“Ognuno di tali profili“, contina la Corte, “è solo in apparenza confinabile ad una dimensione territoriale più limitata. Qualora il contagio si sia diffuso sul territorio nazionale, e mostri di potersi diffondere con tali caratteristiche anche oltre di esso, le scelte compiute a titolo di profilassi internazionale si intrecciano le une con le altre, fino a disegnare un quadro che può aspirare alla razionalità, solo se i tratti che lo compongono sono frutto di un precedente indirizzo unitario, dotato di una necessaria visione di insieme atta a sostenere misure idonee e proporzionate“.
La Corte, sul punto, per spiegare l’inesistenza di un persistente potere di ORDINANZA CONTINGIBILE E URGENTE REGIONALE O LOCALE IN MATERIA COVID, su cui ci siamo occupati con analoghe conclusioni, ripercorre la previgente legislazione.
“Fin dall’art. 32 della legge n. 833 del 1978“, ricorda la Corte, “si è stabilito che il potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti in materia di igiene e sanità pubblica spetti a Regioni ed enti locali, esclusivamente laddove l’efficacia di tali atti possa essere garantita da questo livello di governo, posto che compete invece al Ministro della salute provvedere quando sia necessario disciplinare l’emergenza sull’intero territorio nazionale o su parti di esso comprendenti più Regioni. Che con tale previsione il legislatore non abbia inteso riferirsi all’ovvio limite territoriale di tutti gli atti assunti in sede decentrata, ma, piuttosto, alla natura della crisi sanitaria da risolvere, viene poi confermato dall’art. 117 del d.lgs. n. 112 del 1998, che modula tra Comune, Regione e Stato gli interventi emergenziali nella materia qui coinvolta, a seconda «della dimensione dell’emergenza e dell’eventuale interessamento di più ambiti territoriali regionali». Tale disciplina ha poi trovato conferma nell’art. 50, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali)“.
Nel vigore del nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione, infine, l’indirizzo volto ad adattare il governo dell’emergenza, anche sanitaria, al carattere locale o nazionale di essa, ha trovato ulteriore sviluppo con il decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1 (Codice della protezione civile). L’art. 7, comma 1, lettera c), in correlazione con l’art. 24 seguente, radica nello Stato il potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti di protezione civile, acquisita l’intesa con le Regioni e le Province autonome «territorialmente interessate», sicché, ancora una volta, è l’eventuale concentrazione della crisi su di una porzione specifica del territorio ad imporre il coinvolgimento delle autonomie quando, pur a fronte di simile localizzazione, l’emergenza assuma ugualmente “rilievo nazionale”, a causa della inadeguata «capacità di risposta operativa di Regioni ed enti locali» (sentenza n. 327 del 2003; in seguito, sulla necessità di acquisizione dell’intesa in tali casi, sentenza n. 246 del 2019 (…); sentenza n. 284 del 2006)”.
“Tale conclusione non può che rafforzarsi a fronte di una pandemia, i cui tratti esigono l’impiego di misure di profilassi internazionale. È quanto successo, difatti, a seguito della diffusione del COVID-19, il quale, a causa della rapidità e della imprevedibilità con cui il contagio si spande, ha imposto l’impiego di strumenti capaci di adattarsi alle pieghe di una situazione di crisi in costante divenire“.
Fin dal decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6 (Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 5 marzo 2020, n. 13, il legislatore statale si è affidato ad una sequenza normativa e amministrativa che muove dall’introduzione, da parte di atti aventi forza di legge, di misure di quarantena e restrittive, per culminare nel dosaggio di queste ultime, nel tempo e nello spazio, e a seconda dell’andamento della pandemia, da parte di decreti del Presidente del Consiglio dei ministri. L’art. 1 del d.l. n. 33 del 2020 ha poi reputato opportuno attribuire uno spazio di intervento d’urgenza anche ai sindaci (comma 9), e, soprattutto, alle Regioni (comma 16), alle quali, nelle more dell’adozione dei d.P.C.m., compete l’introduzione di «misure derogatorie restrittive rispetto a quelle disposte» dal d.P.C.m., ovvero anche “ampliative”, ma, per queste ultime, d’intesa con il Ministro della salute, e nei soli casi e nelle forme previsti dai decreti del Presidente del Consiglio dei ministri”.
Tale previsione, continua successivamente la Corte, ha lo “scopo di assicurare che, nel tempo necessario ad aggiornare le previsioni statali alla curva epidemiologica, non sorgano vuoti di tutela, quanto a circostanze sopravvenute e non ancora prese in carico dall’amministrazione statale. È il caso, ad esempio, della sospensione delle attività didattiche prescritta con ordinanze regionali, il cui fondamento riposa non su una competenza costituzionalmente tutelata delle autonomie, ma sull’attribuzione loro conferita dall’art. 1, comma 16, del d.l. n. 33 del 2020.
Ciò che la legge statale permette, pertanto, non è una politica regionale autonoma sulla pandemia, quand’anche di carattere più stringente rispetto a quella statale, ma la sola disciplina (restrittiva o ampliativa che sia), che si dovesse imporre per ragioni manifestatesi dopo l’adozione di un d.P.C.m., e prima che sia assunto quello successivo“.
Punto. Non vi sono ulteriori spazi di azione.
Avv. Santi Delia
LE RECENTISSIME ORDINANZE DEL TAR LAZIO SULLO SCORRIMENTO DELLA GRADUATORIA DEI 1.851 ALLIEVI AGENTI: I NUOVI PROFILI SOLLEVATI DAL GIUDICE AMMINISTRATIVO E IL COMMENTO DEGLI AVVOCATI MICHELE BONETTI E ALBERTO MARIA CARELLI.
- Premesse.
Il TAR del Lazio torna a pronunciarsi sulla nota vicenda relativa alla procedura amministrativa volta all’assunzione di 1.851 Allievi Agenti della Polizia di Stato, caratterizzata, come analizzato in precedenza, dalla modifica dei requisiti per l’accesso alle prove concorsuali a seguito dell’intervento del Legislatore, che introduceva con legge 11 febbraio 2019 n. 12, in sede di conversione del decreto-legge 135/2018, l’articolo 11, comma 2 bis, lettera b).
Mediante tale intervento normativo, il Legislatore disponeva lo scorrimento della graduatoria della prova scritta svolta nel 2017 ai soli ricorrenti “in possesso, alla data del 1 gennaio 2019, dei requisiti di cui all'articolo 6 del decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1982, n. 335, nel testo vigente alla data di entrata in vigore della legge 30 dicembre 2018, n. 145, fatte salve le disposizioni di cui all'articolo 2049 del citato codice dell'ordinamento militare” per contrasto con gli articoli 97 e 3 della Costituzione”.
Senza ripercorrere l’intera vicenda concorsuale, si ricorda che, a seguito dell’intervento legislativo, numerosi soggetti idonei alla prova scritta perché in possesso dei requisiti inizialmente previsti per l’accesso alla carica di Allievi Agenti (età inferiore a 30 anni e licenza media) si ritrovavano esclusi dal successivo scorrimento, in quanto veniva esplicitamente disposta dal Legislatore l’applicazione dei nuovi requisiti di accesso alla medesima carica nelle more introdotti (età inferiore a 26 anni e conseguimento del diploma di scuola superiore) anche alla procedura de qua.
Sostanzialmente si procedeva allo scorrimento della graduatoria del 2017, ma applicando i nuovi requisiti di età e titolo di studio introdotti successivamente.
Il TAR del Lazio, dopo aver disposto nella fase cautelare l’ammissione con riserva dei ricorrenti alle prove, ha dichiarato “rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 11, comma 2 bis, lettera b) del decreto-legge numero 135 del 2018, introdotto, in sede di conversione del decreto-legge, dalla legge 11 febbraio 2019, numero 12, nella parte in cui dispone: “purché in possesso, alla data del 1 gennaio 2019, dei requisiti di cui all'articolo 6 del decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1982, n. 335, nel testo vigente alla data di entrata in vigore della legge 30 dicembre 2018, n. 145, fatte salve le disposizioni di cui all'articolo 2049 del citato codice dell'ordinamento militare” per contrasto con gli articoli 97 e 3 della Costituzione”.
Ebbene, con recenti ordinanze del 3 luglio 2020 (nn. 7672/2020 e 7673/2020), il TAR del Lazio ha rimesso nuovamente la questione alla Corte Costituzionale, sottolineando ulteriori profili di illegittimità costituzionale ed ampliando il novero degli articoli della Carta Costituzionale di cui si paventa la lesione.
Le nuove ed ulteriori motivazioni del TAR del Lazio rispetto ai requisiti introdotti con la norma contestata.
2.1.Il Giudice Amministrativo ha confermato tutte le osservazioni precedentemente rese in merito al contrasto della norma contestata con gli art. 3 e 97 Cost., evidenziando ulteriori profili di illegittimità costituzionale.
L’irragionevolezza dell’articolo 11, comma 2-bis, lettera b), del decreto-legge n. 135/2018, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 12/2019, si palesa, sottolinea il TAR del Lazio, anche “in riferimento alla deroga alla regola dei 26 anni rappresentata dall’art. 2049 del Codice dell’Ordinamento Militare, che consente una proroga di tre anni per i soggetti che avevano prestato il servizio militare”.
Tale disposizione, prevista anche per l’originario concorso e mantenuta dal Legislatore, ha comportato la paradossale circostanza per cui tra i candidati convocati nel 2017 siano presenti soggetti ultratrentenni, molto più “vecchi” dei ricorrenti e che non avrebbero avuto, alla data del 1 gennaio 2019 indicata nel noto emendamento, i requisiti ivi previsti.
Sulla scorta di tali considerazioni, il TAR del Lazio ha evidenziato l’irragionevolezza della previsione normativa per violazione dell’art. 3 della Costituzione, poiché se l’intento del Legislatore fosse stato realmente quello di ringiovanimento delle Forze di Polizia, la novella legislativa avrebbe dovuto eliminare anche la possibilità di elevazione del termine dei 26 anni ai sensi dell’art. 2049 del Codice dell’Ordinamento Militare.
Inoltre, il Giudice Amministrativo ha, per la prima volta, evidenziato profili di lesione anche in relazione all’art. 51, primo comma, della Costituzione, il quale, “nel demandare al legislatore la fissazione dei requisiti in base ai quali tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici, non intende, certo, sottrarre tale potere a qualsivoglia sindacato di legittimità costituzionale sotto il profilo della congruità e della ragionevolezza delle limitazioni previste”[1].
Lo stesso art. 51, infatti, vincola il legislatore a sottoporre la propria discrezionalità di scelta ai rigorosi parametri posti dall’art. 3 della Costituzione. Il requisito dei 26 anni di età per l’accesso alle prove successive, laddove si consente l’elevazione di tale termine ex art. 2049 Codice dell’Ordinamento Militare, comporta una limitazione irragionevole all’accesso ai pubblici uffici, in violazione del divieto contenuto nel principio di eguaglianza garantito dall’art. 3, primo comma, della Costituzione, nonché un’irragionevole limitazione alla posizione costituzionalmente garantita a ogni cittadino dall’art. 51, primo comma, della Costituzione.
Queste disposizioni “sanciscono la protezione della persona da ogni ingiustificata limitazione nell’accesso all’impiego pubblico, che inciderebbe sulla possibilità, a parità di requisiti di idoneità, di svolgere un’attività conforme alle proprie propensioni ed attitudini e di concorrere con essa al progresso della società”[2].
Nel caso in parola, tale possibilità è stata preclusa ai ricorrenti a causa dell’introduzione di una norma che ha previsto un requisito, quello dell’età inferiore ai 26 anni, di cui erano in possesso al momento del bando e per cui, peraltro, la stessa norma ha mantenuto una possibilità di deroga in favore di altri candidati con un punteggio inferiore e, dunque, meno meritevoli.
2.2.Per la prima volta, inoltre, il TAR del Lazio pone l’attenzione sul termine previsto dalla normativa del 2019 per il possesso dei nuovi requisiti, ossia il 1 gennaio 2019.
Ebbene, il Giudice Amministrativo in merito censura la scelta del Legislatore per manifesta irragionevolezza, in quanto il riferimento temporale sembra avulso da qualsivoglia logica se rapportato al titolo di studio, poiché “è circostanza notoria che qualsiasi diploma di scuola secondaria viene conseguito al termine dell’anno scolastico, all’esito del relativo ciclo di studi”. Ne deriva che “la fissazione della data del 1 gennaio, in luogo ad esempio di quella della conclusione del ciclo di studi nel luglio/agosto successivo o, se del caso, dell’anno precedente – come di regola previsto per i concorsi che prevedono il conseguimento di un titolo di studio – appare arbitraria, irragionevole e violativa del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione nonché dell’art. 51 comma primo della Costituzione”.
- I dubbi del TAR del Lazio sulla legittimità dell’iter di formazione della norma contestata.
Il TAR del Lazio ha, infine, sollevato per la prima volta dubbi sulla legittimità costituzionale della norma di cui all’art. 11, comma 2 bis, lett. b), del D.L. 14/12/2018 n. 135 anche con riguardo all’iter formativo che ha condotto alla sua emanazione, per contrasto con l’art. 77 Cost.
La giurisprudenza costituzionale, in riferimento all’attività legislativa di modificazione o integrazione del decreto legge in sede di conversione, ha fissato dei precisi limiti entro cui tale attività deve intervenire, dichiarando costituzionalmente illegittime le norme che tali confini avessero oltrepassato.
In particolare, la Corte Costituzionale ha statuito che “la legge di conversione segue un iter parlamentare semplificato e caratterizzato dal rispetto di tempi particolarmente rapidi, che si giustificano alla luce della sua natura di legge funzionalizzata alla stabilizzazione di un provvedimento avente forza di legge, emanato provvisoriamente dal Governo e valido per un lasso temporale breve e circoscritto.”. Da tale funzione derivano necessariamente dei limiti che la legge di conversione deve rispettare, pena l’illegittimità costituzionale.
Dunque, continua la Corte Costituzionale, “l’inclusione di emendamenti e articoli aggiuntivi che non siano attinenti alla materia oggetto del decreto-legge, o alle finalità di quest’ultimo, determina un vizio della legge di conversione in parte qua. (…). In relazione a questa tipologia di atti – che di per sé non sono esenti da problemi rispetto al requisito dell’omogeneità – ogni ulteriore disposizione introdotta in sede di conversione deve essere strettamente collegata ad uno dei contenuti già disciplinati dal decreto-legge ovvero alla ratio dominante del provvedimento originario considerato nel suo complesso. (…) L’eterogeneità delle disposizioni aggiunte in sede di conversione determina, dunque, un vizio procedurale delle stesse, che come ogni altro vizio della legge spetta solo a questa Corte accertare. Si tratta di un vizio procedurale peculiare che per sua stessa natura può essere evidenziato solamente attraverso un esame del contenuto sostanziale delle singole disposizioni aggiunte in sede parlamentare, posto a raffronto con l’originario decreto-legge. All’esito di tale esame, le eventuali disposizioni intruse risulteranno affette da vizio di formazione, per violazione dell’art. 77 Cost., mentre saranno fatte salve tutte le componenti dell’atto che si pongano in linea di continuità sostanziale, per materia o per finalità, con l’originario decreto-legge”.[3]
Ebbene, il TAR del Lazio, richiamando i principi statuiti dal Giudice delle Leggi, ha affermato che “nel caso di specie, come è agevolmente riscontrabile dal semplice raffronto tra i testi e dai avori preparatori - l’introduzione, con legge di conversione, dei nuovi requisiti non solo è totalmente estranea rispetto al contenuto originario dell’art. 11 del D.L. 135/2018, ma si pone altresì in contrasto con le finalità di semplificazione previste dal Decreto-Legge stesso, in quanto ha costretto l’Amministrazione alla verifica di ulteriori e nuovi requisiti non previsti nel bando originario”.
Alla luce di ciò, secondo il Giudice Amministrativo, l’applicazione dei nuovi requisiti alla procedura de qua, fermi restando i dubbi di legittimità costituzionale in merito alla lesione dei principi del legittimo affidamento e di parità di trattamento, nonché degli artt. 3 e 97 Cost., avrebbe dovuto essere prevista con strumenti normativi differenti rispetto alla legge di conversione, poiché la “manifesta mancanza di ogni nesso di interrelazione tra le disposizioni incorporate nella legge di conversione e quelle dell’originario decreto-legge inficia di per sé la legittimità costituzionale della norma introdotta con la legge di conversione”.[4]
Avv. Michele Bonetti
Avv. Alberto Maria Carelli
IL TAR DEL LAZIO RIMETTE LA QUESTIONE DI LEGITTIMITA’ ALLA CORTE COSTITUZIONALE PER LO SCORRIMENTO DELLA GRADUATORIA DEI 1.851 ALLIEVI AGENTI: IL COMMENTO DEGLI AVVOCATI MICHELE BONETTI E ALBERTO MARIA CARELLI.
Con una lunga e motivata ordinanza resa in data 25 maggio 2020, il TAR del Lazio, sezione I quater, si è pronunciato in merito alle legittimità dell’operato del legislatore in riferimento al concorso per l’assunzione di 1.851 allievi agenti.
Ebbene, il TAR del Lazio ha dichiarato “rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 11, comma 2 bis, lettera b) del decreto-legge numero 135 del 2018, introdotto, in sede di conversione del decreto-legge, dalla legge 11 febbraio 2019, numero 12, nella parte in cui dispone: “purché in possesso, alla data del 1 gennaio 2019, dei requisiti di cui all'articolo 6 del decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1982, n. 335, nel testo vigente alla data di entrata in vigore della legge 30 dicembre 2018, n. 145, fatte salve le disposizioni di cui all'articolo 2049 del citato codice dell'ordinamento militare” per contrasto con gli articoli 97 e 3 della Costituzione”.
Premesse.
Il Ministero dell’Interno, con decreto del 18 maggio 2017, aveva indetto un concorso pubblico per il reclutamento di 893 agenti di polizia, ove tra i requisiti per la partecipazione al concorso era previsto un limite massimo di età pari ad anni 30 e il possesso del titolo di studio della licenza media inferiore.
Nella graduatoria definitiva del concorso, oltre ai vincitori, venivano inseriti tutti i candidati che avevano riportato almeno la sufficienza nella prova scritta, ma non erano stati convocati, per mancanza di posti disponibili, alle ulteriori prove selettive psicofisiche ed attitudinali.
Si trattava quindi di candidati non ancora idonei, non avendo essi completato la selezione concorsuale, ma potenzialmente interessati ad eventuali provvedimenti di scorrimento della graduatoria, qualora si fossero resi disponibili ulteriori posti da coprire senza l’espletamento di un nuovo concorso.
Dopo la conclusione del concorso, il Regolamento che stabilisce i requisiti di partecipazione ai concorsi pubblici per l’accesso alla qualifica di agente di polizia (D.P.R. 24/04/1982, n. 335, Ordinamento del personale della Polizia di Stato che espleta funzioni di polizia) veniva modificato dall'art. 1, comma 1, lett. e), n. 1), D.lgs. 29 maggio 2017, n. 95, prevedendo l’abbassamento dell’età massima a 26 anni ed il necessario possesso del diploma di scuola superiore di secondo grado.
Mediante la successiva legge 11 febbraio 2019, numero 12, che ha modificato, in sede di conversione, l’articolo 11 del decreto-legge numero 135 del 2018, veniva introdotto il comma 2 bis, il quale prevedeva: “Al fine di semplificare le procedure per la copertura dei posti non riservati ai sensi dell'articolo 703, comma 1, lettera c), del codice dell'ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, è autorizzata l'assunzione degli allievi agenti della Polizia di Stato, nei limiti delle facoltà assunzionali non soggette alle riserve di posti di cui al citato articolo 703, comma 1, lettera c) e nel limite massimo di 1.851 posti, mediante scorrimento della graduatoria della prova scritta di esame del concorso pubblico per l'assunzione di 893 allievi agenti della Polizia di Stato bandito con decreto del Capo della Polizia - Direttore generale della pubblica sicurezza del 18 maggio 2017, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale - 4a Serie speciale - n. 40 del 26 maggio 2017. L'Amministrazione della pubblica sicurezza procede alle predette assunzioni: b) limitatamente ai soggetti risultati idonei alla relativa prova scritta d'esame e secondo l'ordine decrescente del voto in essa conseguito, ferme restando le riserve e le preferenze applicabili secondo la normativa vigente alla predetta procedura concorsuale, purché in possesso, alla data del 1 gennaio 2019, dei requisiti di cui all'articolo 6 del decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1982, n. 335, nel testo vigente alla data di entrata in vigore della legge 30 dicembre 2018, n. 145, fatte salve le disposizioni di cui all'articolo 2049 del citato codice dell'ordinamento militare.”
Dunque, l’ultima parte della novella legislativa adottata nel febbraio 2019 escludeva dalla procedura volta all’assunzione di 1.851 allievi agenti i soggetti che, pur avendo superato la prova scritta, non erano in possesso dei nuovi requisiti di età e titolo di studio introdotti successivamente.
Sostanzialmente si procedeva allo scorrimento della graduatoria del 2017, ma applicando i nuovi requisiti di età e titolo di studio introdotti successivamente.
Così facendo, numerosissimi candidati rimanevano esclusi dalla procedura di assunzione e procedevano ad impugnare i decreti ministeriali che, in attuazione di quanto previsto dalla Legge predetta, convocano alle prove psicofisiche solo candidati con un’età inferiore a 26 anni ed in possesso del diploma di scuola superiore.
Con plurime ordinanze cautelari, il TAR del Lazio ha accolto le istanze dei suddetti ricorrenti, imponendo all’Amministrazione di sottoporli alle prove psicofisiche ed attitudinali. Nonostante l’idoneità ottenuta alle successive prove, questi ultimi non venivano convocati per il successivo corso di formazione. È in tale scenario che si è giunti all’udienza di merito dinanzi al Collegio del TAR del Lazio.
Le motivazioni del TAR del Lazio.
In merito alla rilevanza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, co. 2-bis, del D.L. 135/2018, il Giudice Amministrativo di prime cure si limita giustamente ad evidenziare come “il suo accoglimento da parte della Corte Costituzionale comporterebbe l’annullamento, per invalidità derivata, dei provvedimenti impugnati”, con l’effetto di eliminare i requisiti più restrittivi introdotti dalla disposizione controversa e conseguente assoggettamento della selezione alla disciplina originariamente prevista dal bando del 18 maggio 2017.
Circa la non manifesta infondatezza, in primis il TAR del Lazio ha posto l’attenzione sulla natura di legge-provvedimento della norma contestata, in quanto contenente “disposizioni dirette a destinatari determinati”. Proprio poiché in grado di incidere direttamente sulle posizioni di individui determinati, tali tipologie di norme “devono soggiacere ad un rigoroso scrutinio di legittimità costituzionale per il pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare e derogatorio”.
Il Giudice Amministrativo chiarisce che se la decisione di intervenire sulla graduatoria della prova scritta fosse stata eseguita con un atto amministrativo, “non vi è dubbio che quell’atto sarebbe stato annullato dal giudice amministrativo per palese illegittimità” poiché “costituisce jus receptum nell’ordinamento il principio che, di regola, la disciplina dei requisiti di ammissione ai pubblici concorsi non può essere modificata allorquando il concorso sia già in itinere”[1]. Trattandosi, tuttavia, di atto formalmente legislativo, al privato cittadino è consentito chiedere al giudice adito la rimessione della questione di legittimità della legge provvedimento alla Corte Costituzionale.
La norma controversa presenta un’evidente natura retroattiva, posto che produce effetti su una graduatoria formata nel 2017. Al legislatore non è preclusa la possibilità di emanare norme-provvedimento con effetti retroattivi, purché tale scelta sia giustificata sul piano della ragionevolezza, attraverso un puntuale bilanciamento tra le ragioni che ne hanno motivato la previsione e i valori potenzialmente lesi dall’efficacia a ritroso della norma adottata[2].
Sul punto, il TAR “dubita della conformità della norma censurata ai canoni di legittimità”, in quanto lesiva del principio di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento. Più in particolare, poiché modifica i requisiti di partecipazione alle prove in corso, l’agere del Legislatore determina, ad avviso del TAR, una violazione del principio di tutela dell’affidamento riposto dai candidati nel bando di concorso, a cui partecipavano nel 2017. Il legittimo affidamento è un principio strettamente correlato ai concetti di concretezza, buona fede ed auto responsabilità di matrice privatistica che, negli ultimi anni, hanno trovato sempre più applicazione nel campo del diritto amministrativo anche sotto la spinta del diritto comunitario; nel caso di specie, l’affidamento sorgeva a seguito di un comportamento dell’Amministrazione, che determinava una posizione di vantaggio in capo ai ricorrenti consistente nella presenza in una graduatoria a cui la PA decideva di attingere ai fini dell’assunzione del nuovo contingente bandito. Detta circostanza non poteva che indurre i medesimi a sperare in una futura evoluzione di tale situazione preordinata all’effettiva assunzione.
Non solo. Secondo la tesi del Giudice Amministrativo, “emerge anche il profilo discriminatorio e lesivo del principio di imparzialità della P.A. da cui sembra affetta la norma in esame”. Difatti, all’atto dell’approvazione della legge-provvedimento, i destinatari esclusi dalla stessa erano “immediatamente e aprioristicamente individuabili, tanto dal Legislatore, quanto dalla Pubblica Amministrazione, essendo pubblica la graduatoria di merito ed essendo note l’età anagrafica e il titolo di studio di ciascuno dei candidati classificati in posizione potenzialmente utile per beneficiare dello scorrimento della graduatoria”. Pertanto, “i nuovi, restrittivi requisiti di assunzione, andando ad applicarsi su una platea di destinatari completamente definita, hanno consentito alla P.A. di scegliere taluni soggetti, già noti, così favorendoli, e di escluderne altri, parimenti riconoscibili”.
Così facendo, si è leso il principio di imparzialità dell’azione amministrativa, sancito dall’art. 97 della Costituzione, che deve ovviamente essere posto alla base di qualsivoglia procedura concorsuale.
In sostanza, la disposizione normativa qui censurata ha consapevolmente orientato l’azione amministrativa a tutto vantaggio di un gruppo di soggetti “nominativamente individuabili” prima dell’adozione del provvedimento legislativo.
In tal modo risulta violato anche il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione.
Il Collegio paventa altresì una lesione del principio meritocratico che dovrebbe guidare l’azione amministrativa nello svolgimento delle procedure concorsuali[3]. Applicando la norma in questione, infatti, l’Amministrazione ha proceduto a convocare soggetti con un punteggio inferiore solo perché più giovani rispetto a candidati con un punteggio superiore.
Alla luce di tali considerazioni il TAR del Lazio ha ritenuto irragionevole, e dunque meritevole di essere sottoposto al sindacato di legittimità costituzionale, la scelta del Legislatore di attingere da una graduatoria concorsuale modificando retroattivamente i requisiti di ammissione, così da determinare l’esclusione dei candidati privi dei nuovi titoli richiesti dalla procedura di assunzione.
Avv. Michele Bonetti
Avv. Alberto Maria Carelli
[1](Cons. Stato, Sez. III, 30.09.2015, n. 4573)
[2] Sentenza Corte Costituzionale, 12.04.2017, n. 73, nonché sentenza Corte Costituzionale n. 137/2019.
[3]Si vedano in merito, ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, ord. 18 giugno 2012, n. 3541, Cons. Stato, Sez. VI, 26 febbraio 2014, n. 839; T.A.R. Lazio, Sez. III, 7 dicembre 2012, n. 4453.
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Il presente articolo, muovendo dall’analisi della sentenza n. 173/2016 della Consulta relativa al prelievo forzoso sulle c.d. pensioni d’oro, intende illustrare
Società in nome collettivo: sospesa la prescrizione per l’azione di responsabilità finchè l’amministratore è in carica
La Corte costituzionale ha di recente dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2941 n. 7 del codice civile “sospensione per rapporti tra le parti”
Sostituzione dell’arresto e dell’ammenda con il lavoro di pubblica utilità nel codice della strada
Con la sentenza n. 198 del 2015 la Corte Costituzionale ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità
CONCEZIONE AUTONOMISTA DI PENA, SANZIONI AMMINISTRATIVE, CONFISCA ANTIMAFIA: NE BIS IN IDEM E REGIME SUCCESSORIO
La Corte Costituzionale ha chiarito, con le note sentenze gemelle n. 348 e 349 del 2008, che nei casi in cui vi sia un contrasto tra una norma convenzionale e una norma interna, il giudice nazionale investito della questione sia tenuto dapprima a verificare la possibilità di dare
L’ART. 18 ED IL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI: COME CAMBIA IL MONDO DEL LAVORO CON IL JOBS ACT
Al centro del dibattito politico degli ultimi mesi impera incontrastato l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, fulcro delle polemiche mosse alla riforma del lavoro varata dal Governo Renzi, il famigerato Jobs Act, ora al vaglio della Camera dei deputati dopo la fiducia ottenuta al Senato.