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Pubblicato in Interviste

Spezzare la catena dei “pregiudizi di genere”: uno “sguardo di genere” sul sistema educativo italiano. La parola a Valeria Bruccola

by Dott.ssa Roberta Nardi e Dott. Riccardo Aiello on08 Marzo 2014

In questo periodo dell'anno si collocano due importanti momenti: la "Giornata europea per la parità retributiva" del 28 febbraio e la famosissima quanto mediatica "Giornata internazionale della donna", celebrata l’8 marzo di ogni anno. E’ in questi giorni che normalmente si registra una concentrazione quasi spasmodica di riflessioni sui temi dell’uguaglianza tra uomini e donne, sulla presenza delle donne nelle istituzioni e nei centri di potere, sull’effettiva applicazione di quell’articolo 51 della Costituzione modificato recentemente e tante volte sbandierato come il simbolo di una raggiunta parità delle donne quantomeno a livello istituzionale.

E’ di questi giorni inoltre la notizia dell’insediamento del primo governo con la più alta presenza femminile della storia della Repubblica: il governo più giovane e quello “più rosa”.
Gli standard europei a livello di immagine sembrerebbero quindi raggiunti ma il rischio che il dibattito si risolva in un mero computo di ministre, sottosegretarie e deputate è sempre in agguato quasi come se fosse la semplice parità numerica ad esprimere la vera parità di genere.
La tutela delle donne ha ricevuto nel tempo e, soprattutto a partire dall'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, una tutela formale almeno nel suo dettato normativo sempre più stringente.
L'art. 37 della Costituzione ha previsto tra le sue norme il diritto della donna agli "stessi diritti e, a parità di lavoro, alle stesse retribuzioni che spettano al lavoratore". Un principio a cui si è cercato di trovare un'applicazione sostanziale con l'emanazione della legge 9 dicembre 1977 n. 903 ("Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro") strettamente connessa alla riforma del diritto di famiglia operata dalla l. n. 151 del 1975 e all'affermazione di una posizione della donna nell'ambito della famiglia formalmente uguale a quella dell'uomo.
Divieto di qualsiasi discriminazione (artt. 1 e 3); diritto alla stessa retribuzione dell'uomo a parità di lavoro (art. 2); diritto di proseguire nello svolgimento dell'attività lavorativa fino agli stessi limiti d'età previsti per gli uomini (art. 4): il dettato normativo della L. n. 903 del 1977 ha rappresentato indubbiamente una svolta verso l'uguaglianza di genere. Un'uguaglianza in ambito lavorativo sancita anche a livello internazionale sin dal 1951 con la Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro n. 100 (Convenzione sull'uguaglianza di retribuzione) ratificata e resa esecutiva in Italia con la L. 22 maggio 1956 n. 741.
La tutela dell'uguaglianza di genere ha conosciuto passi in avanti anche sotto il profilo della tutela delle lavoratrici madri (D.lgs. 151 del 2001) e di quelle operanti a livello dirigenziale e pubblico con il riconoscimento delle cd. quote rosa (L.215/2012).  
Una varietà di norme, quasi un proliferare legislativo a tutela delle donne che indubbiamente rispecchia un'attenzione crescente quantomeno a livello mediatico sul tema della parità di genere. Ma quell'uguaglianza che con le leggi si è tentato di perseguire risulta effettivamente garantita poi nella sua applicazione pratica? E' riuscito il semplice dettato legislativo a garantire l'uguaglianza di genere oppure la disuguaglianza ancora strisciante necessita di un intervento più mirato e attento a fenomeni sotto gli occhi di tutti e apparentemente privi di segnali di discriminazione?
Parametro normativo e cartina di tornasole utile a verificare il rispetto di tali principi è indubbiamente l'art. 3 della Costituzione, il quale dietro il riconoscimento di una uguaglianza formale prescrive poi la necessità di una sua tutela effettiva individuando nel comma secondo l'obbligo dello Stato di  "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che [...] impediscono il pieno sviluppo della persona umana".
E' un problema attuale e che conosce un suo riscontro pratico nel mondo del lavoro: si tratta della questione poco dibattuta in profondità della “disparità di genere”, una sottile linea che nella vita di tutti i giorni separa ancora l’uguaglianza dalla disuguaglianza tra i due sessi e che trova uno specchio evidente nella visione sociale di determinati ruoli professionali.
La “connotazione di genere” è il termine usato dagli esperti per esprimere questo fenomeno nel mercato del lavoro: un aspetto tanto evidente quanto sottile nelle sue implicazioni sociali e culturali che si esprime poi in scelte di investimenti, di politiche e, quindi, in decisioni legislative.
Il legislatore, quello europeo, ha mostrato di comprendere il problema adottando negli ultimi anni la Carta per le donne (2010) e il Patto europeo per l’uguaglianza di genere per gli anni 2011-2020.
Si tratta di norme e principi volti ad un superamento dell’ineguaglianza sostanziale e al contrasto di quei fenomeni di segregazione di genere che si possono riscontrare in settori produttivi in cui apparentemente vige un’uguaglianza formale se non addirittura una “prevalenza numerica” di lavoratrici donne.
La cd. “discriminazione di genere” può infatti registrarsi anche laddove ci sia una presenza femminile più ampia e maggioritaria rispetto a quella maschile. Essa infatti tende recentemente a rivelarsi soprattutto in quei settori storicamente appannaggio delle donne e che oggi il vento della crisi economica mette ancora più in “crisi” nei loro aspetti di prestigio ed autorevolezza sociale.
Specchio di tali considerazioni è sicuramente il sistema scolastico italiano dove la “connotazione di genere” è straordinariamente visibile nella massiccia presenza di donne. Un fenomeno storico e strettamente legato al ruolo della donna nell’ambito sociale e professionale del nostro Paese. Un fenomeno che presenta quindi forti implicazioni con il tema delle opportunità di diversificazione dei modelli educativi dei bambini promosso in sede europea e con la necessità di un adeguato e sostenuto sviluppo professionale del corpo docenti anche alla luce dei consistenti tagli degli ultimi anni.


Per una panoramica sul tema ci troviamo oggi in compagnia della Dott.ssa Valeria Bruccola del direttivo nazionale Adida che ci ha rilasciato un'intervista sulla caratterizzazione di genere nei sistemi educativi, tematica in ordine alla quale si sono succeduti congressi europei, ogni due  anni, dal 2007.


L’Unione Europea nelle determinazioni assunte dal Consiglio Europeo in materia di educazione e cura della prima infanzia ha ritenuto fondamentale per un sano sviluppo dei bambini la possibilità di fornire loro sin dai primi anni modelli comportamentali di entrambi i sessi. Questa possibilità avrebbe la duplice funzione di ampliare la loro esperienze cognitive e allo stesso tempo di ridurre la segregazione di genere nel mercato del lavoro con particolare riferimento al comparto scuola. Secondo Lei gli insegnanti che ruolo rivestono in relazione a questa indicazione?
Sebbene le agenzie educative siano molteplici (famiglia, mass media, confessioni religiose, associazionismo, ecc.), le società occidentali hanno ufficialmente delegato buona parte dell'educazione di bambini e ragazzi alle istituzioni scolastiche. L'educazione alla parità di genere, quindi, dovrebbe partire proprio dalla scuola, in modo strutturale e consapevole, diversamente da quanto accade oggi, dove la connotazione di genere, nel segmento dei docenti, è assai connotata, quasi ad essere caratterizzata dal binomio insegnante/donna. Al di là di casuali attenzioni alla questione, invece, non si registra nessuna consapevolezza, anche tra i docenti stessi, di quanto possa essere significativamente importante, ai fini del modello educativo offerto, la prevalenza femminile nel corpo docente delle scuole italiane, prevalenza che acquista un significato assai particolare se si pensa a come sia poco valorizzato, quando non vessato e socialmente condannato, il ruolo del docente in Italia.


Come mai si è generato un sistema scolastico nel quale si riscontra una predominanza femminile? Si tratta di esigenze “reali”?
Nell'immaginario collettivo, quello del docente appare come un lavoro “privilegiato”, specie in ragione del calendario scolastico, che segue, più o meno, la cadenza della vita della famiglia media italiana. Per questo, progressivamente, la professione di docente è stata “scelta” dalle donne, vista la possibilità, a dispetto di altre realtà lavorative, di conciliare lavoro e famiglia. Ma questa “medaglia” ha ben due rovesci: la professione di docente non è, come in passato, un lavoro “snello” e favorevole, visto l'intensificarsi di attività extradidattiche che si addensano nei pomeriggi e nel periodo estivo. Inoltre, altrettanto progressivamente la professione è stata disertata dagli uomini, non certo per la “convenienza” in termini di organizzazione del lavoro, quanto per il rapporto qualità del lavoro-retribuzione, assai insoddisfacente. Rispetto alla media della retribuzione europea per questo profilo, infatti, i docenti italiani sono tra i meno pagati, nonostante il sempre maggiore carico di lavoro. La professione di docente, inoltre, ha subito numerosi attacchi mediatici, sociali e istituzionali, che si sono persino intensificati negli ultimi anni, facendo apparire il docente come un fannullone o un incompetente. Inevitabile la ricaduta negativa sullo svolgimento della professione stessa: si registrano infatti sempre più numerosi casi di “burnout” e frustrazione, con conseguente e inevitabile ripercussione sull'attività scolastica.


Quali sono le ripercussioni inevitabili di questo “modello” e della stessa connotazione di genere nel settore dell’istruzione?    
Come accennavo, la ricaduta negativa è certa e non solamente in relazione alla connotazione di genere. Provo ad andare con ordine... Proporre un unico modello, per giunta progressivamente dequalificato e svilito socialmente, e il tutto legato alla sfera femminile, finisce per creare un'inevitabile percezione del docente come una figura poco significativa ed autorevole. La causa dell'insuccesso scolastico di molti alunni, secondo me, non è da ricercare tanto lontano: quale influenza positiva su un alunno può avere infatti un docente, donna, poco pagato, per nulla autorevole anche da un punto di vista sociale, sulla formazione degli alunni? L'alunno maschio, infatti, arriva spesso a manifestare segni di sufficienza che vanno ben oltre la normale relazione docente/discente, mentre l'alunna femmina finisce per percepire, più o meno consapevolmente, la figura della donna come inesorabilmente legata ad un ruolo che troppo spesso viene percepito come un “maternage”, più che in una veste professionale propriamente detta, con conseguenze negative anche rispetto al ruolo socialmente riconosciuto all'insegnante. Non è possibile restituire un modello positivo della donna, in un contesto come questo, e non è possibile anche continuare a perpetrare il binomio insegnante/donna senza che questo assuma connotazioni negative e negativizzanti; si tratta di un aspetto maggiormente evidente nelle realtà scolastiche a prevalenza maschile, dove le insegnanti donne faticano a stabilire un rapporto positivo e di leadership con le proprie classi. In ogni caso, in tutti i segmenti scolastici, la proposizione di modelli di riferimento di entrambi i sessi sarebbe più appropriata rispetto al ruolo di socializzazione e di inculturazione affidato alla scuola, un modello però che dovrebbe tener conto proprio della parità tra i sessi e veicolare le pari opportunità come principio.


Vi è un filo conduttore tra la spiegata connotazione di genere nell’istruzione pubblica e i numerosi attacchi istituzionali e sociali che ha subito la scuola?
Da molto concentro le mie riflessioni al contesto scolastico da “coinvolta” e da “osservatrice esterna”. Facendo un'analisi diacronica del sistema non credo di sbagliare dicendo che appare evidente che la caratterizzazione di genere abbia progressivamente influito anche sulla “dequalificazione” sociale e lavorativa operata a danno dei docenti. La garanzia che le donne avessero libero accesso alle professioni è rimasta per lo più un miraggio, favorendo la caratterizzazione al femminile dei docenti italiani. Ma a guardare bene la scarsa tutela che questi hanno avuto, a livello istituzionale o sindacale, la difficoltà di emanciparsi nel lavoro e di immaginare una carriera all'interno del sistema senza che questa diventi un corso ad ostacoli, la scarsa retribuzione e l'equiparazione dei docenti a qualsiasi dipendente pubblico, dimenticando il ruolo istituzionale che i docenti invece assumono, fanno pensare che proprio la caratterizzazione di genere non abbia giovato neanche all'affermazione di professionalità. Certo, un processo di emancipazione, anche nel lavoro, deve contemplare una componente di autodefinizione e di autodeterminazione, alle quali i docenti dimostrano di essere generalmente poco inclini, ma non è neanche accettabile che, a livello istituzionale, si sfrutti questa “debolezza” contrattuale per trarne unicamente profitto in termini di cassa. Se a farne le spese, infatti, è l'intero sistema, in termini educativi, quanto lavorativi, dovrebbero essere i garanti delle pari opportunità ad incentivare la valorizzazione del ruolo del docente e in termini scolastici e in termini lavorativi.


Il messaggio principale di una recente produzione cinematografica, Monsieur Lazhar, secondo un’interpretazione diffusa condurrebbe a conclusioni analoghe. Lei ha visto questo film? E’ vero a suo avviso che il film rappresenti anche i benefici della presenza maschile nella scuola?
Non è raro che il cinema metta in scena la realtà scolastica, rappresentato come un luogo che metaforicamente e realisticamente prepara alla vita. Questo film racconta di una scuola “desiderata”, un luogo dove sperimentare la vita con i suoi drammi ma anche con le emozioni che accompagnano lo stare insieme, il condividere quotidianamente uno spazio esistenziale ancor prima che educativo. Nel film si fa esplicito riferimento alla connotazione al femminile del sistema scolastico, in modo ironico ma, proprio perché rappresenta la realtà, anche il linguaggio cinematografico rimanda un messaggio coerente e dissonante allo stesso tempo. In luogo di una maestra, a “salvare” una situazione difficile, arriva un insegnante uomo che, pur essendo “altro” rispetto alla cultura dominante riesce nel suo intento educativo laddove, forse, nessuna donna sarebbe stata capace. Sto esagerando, ovviamente, ma forse non troppo. Il cinema ci ha spesso abituato a vedere come vincente in ambito scolastico, carismatico ed efficace un insegnante maschio. Ciò ha contribuito ad alimentare, anche se indirettamente, l'idea che le donne, se pure numericamente superiori, non sempre sono all'altezza delle situazioni con la conseguenza che tutte le volte in cui è necessario introdurre un cambiamento o un'azione incisiva l'insegnante di sesso maschile ha un successo assicurato.


Lontano, quindi, è ancora il rispetto di un'effettiva uguaglianza di genere. In un clima di riforme imminenti - come quelle annunciate proprio in questi giorni - sarebbe necessario che il legislatore tenga conto nella rivisitazione del sistema dell'istruzione e della scuola anche di una effettiva tutela della parità di genere e del ruolo fondamentale delle insegnanti, dando finalmente applicazione ad una vera uguaglianza sostanziale come prescritta dal comma 2 dell'art. 3 della Costituzione.

Ultima modifica il 08 Marzo 2014