Il TAR Lazio annulla il provvedimento del diniego di riconoscimento del titolo conseguito in Spagna.
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Il ricorrente, docente abilitato all’insegnamento sulla classe di concorso AAAA (infanzia) e EEEE (primaria), conseguiva il titolo di abilitazione all’insegnamento sulla classe di concorso ADAA ed ADEE in Spagna e ne chiedeva il riconoscimento al Ministero Italiano.

L’Amministrazione inizialmente inoltrava al ricorrente una richiesta di integrazione documentale non completa e poi rigettava la domanda avanzata dall’insegnante senza che lo stesso fosse messo nelle condizioni di proporre osservazioni o allegare documentazione come espressamente previsto dalla L. n. 241/1990 e senza nemmeno subordinare il riconoscimento a misure compensative.

Con Ordinanza n. 3920/2024 reg. prov. caut. Il TAR Lazio accoglieva la domanda del ricorrente ravvedendo la sussistenza non solo del periculum in mora– “atteso che il ricorrente, a causa del diniego di riconoscimento del titolo di specializzazione conseguito all’estero non può essere inserito con riserva nelle GPS e stipulare i relativi contratti di supplenza” – ma altresì del c.d. fumus boni iuris precisando e chiarendo: “l’amministrazione non ha correttamente applicato i principi affermati in materia dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato in ordine alla necessità di una comparazione analitica tra il percorso svolto all’estero e quello previsto in Italia; in ragione di quanto dedotto in ricorso ed in assenza di contestazione da parte dell’amministrazione, la richiesta di integrazione documentale trasmessa dall’adozione del provvedimento era inidonea a consentire all’interessato di individuare i documenti mancanti”.

Di particolare rilevanza è che il TAR Lazio accoglie la domanda cautelare nonostante l’Amministrazione rilevava l’emanazione recente dell’art. 7 D.L. 71/2024,  che prevede la possibilità per tutti coloro che sono in attesa del riconoscimento del titolo estero e per tutti coloro che hanno avuto un rigetto della richiesta di riconoscimento e lo abbiano impugnato, come il ricorrente, di poter partecipare ad appositi percorsi di formazione; il Collegio accoglie così la domanda cautelare precisando come ad oggi siamo ancora in attesa “dell’attivazione dei predetti percorsi”; difatti al ricorrente ad oggi era preclusa addirittura la possibilità di ottenere incarichi precari dalle GPS.

 

 

TAR Lazio: sussiste il diritto all’accesso di esposti alla base di attività di indagine della P.A.
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Con sentenza del 16 maggio 2022, la sez. V del TAR del Lazio si è pronunciata su un ricorso, patrocinato dallo studio legale Bonetti & Delia, volto all’annullamentodel diniego di ostensione opposto dall’Amministrazione all’istanza di accesso agli atti formulata da un privato ai sensi dell’art. 22 e ss. della L. n. 241 del 1990.

La vicenda traeva origine da un procedimento di restituzione di somme asseritamente percepita a titolo di indebito da parte del cittadino. L’Amministrazione evadeva una prima istanza di accesso agli atti formulata dal cittadino e dall’analisi della documentazione fornita emergeva come l’indagine istruttoria a carico del privato fosse stata avviata dalla P.A. soltanto a seguito di una segnalazione anonima.

Pertanto, il cittadino inoltrava un’ulteriore istanza di accesso agli atti al fine di conoscere tale segnalazione, costituendo la stessa presupposto logico e giuridico della richiesta di restituzione delle somme richieste.

L’Amministrazione non consentiva l’accesso a quanto richiesto, in quanto non riteneva sussistente un interesse diretto, attuale e concreto all’accesso dei documenti, avendo l’interessato, sia con diverse note difensive sia con autonomo ricorso al TAR con cui veniva impugnata la richiesta restitutoria, dimostrato di essere in piena cognizione delle motivazioni sulla base delle quali si procedeva alla revisione delle somme erogate.

Il privato cittadino adiva così il TAR del Lazio, lamentando l’impossibilità di far valere le proprie ragioni in contraddittorio senza la piena conoscenza di tutti gli atti in possesso dell’Amministrazione, con ciò subendo una lesione del proprio diritto di difesa costituzionalmente garantito.

L’Amministrazione, dall’altro lato, insisteva sul difetto di interesse del ricorrente all’accesso poiché la segnalazione anonima si configurava come elemento fattuale esterno al procedimento, risultando del tutto irrilevante conoscerne l’esistenza (Cons. Stato, Sez. III, n. 1717/2021).

Ebbene il TAR del Lazio ha accolto il ricorso patrocinato dallo studio Bonetti & Delia, ordinando l’ostensione della segnalazione anonima.

Nel percorso logico-giuridico operato dal Giudice Amministrativo, si è partiti dal principio, più volte sancito dal Consiglio di Stato, secondo cui la legittimazione all’accesso “ha consistenza autonoma, indifferente allo scopo ultimo per cui viene esercitata, sicché, una volta accertato il collegamento tra l'interesse e il documento, ogni ulteriore indagine sull'utilità ed efficacia del documento stesso in prospettiva di tutela giurisdizionale ovvero sull'esistenza di altri strumenti di tutela eventualmente utilizzabili è del tutto ultronea” (Cons. Stato, Sez. V, 9 marzo 2020, n. 1664).

Alla luce di tale principio, il TAR del Lazio riteneva che le finalità difensive addotte dal ricorrente fossero meritevoli di tutela, in quanto la conoscenza del contenuto della segnalazione anonima poteva rivelarsi utile per valutare l’attendibilità e la coerenza di quanto richiesto dall’Amministrazione.

Né d’altronde la pendenza dell’autonomo giudizio, mediante cui il ricorrente impugnava la richiesta restitutoria sempre dinanzi al TAR, poteva essere addotto quale motivo per negare l’accesso. Sul punto, ribadendo quanto sancito dall’Adunanza Plenaria n. 4/2011, il Collegio del TAR del Lazio precisava che“la pubblica amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo adito nel giudizio di accesso ai sensi dell’art. 116 c.p.a. non devono svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione detentrice del documento o al giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso, salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241 del 1990”.

Solamente in particolari ipotesi in cui il denunciante potrebbe essere esposto, in ragioni dei rapporti con il denunciato, ad azioni discriminatorie o indebite pressioni, il principio di trasparenza deve ritenersi soccombente rispetto a quello alla riservatezza, ipotesi non ravvisabile, secondo il TAR, nel caso di specie.

In conclusione il TAR del Lazio, annullando il diniego all’accesso, si pronunciava conformemente alla giurisprudenza amministrativa che ritiene che“nell’ambito di un procedimento ispettivo, o comunque di controllo, al privato è riconosciuta la titolarità di un interesse qualificato a conoscere i documenti utilizzati per l’iniziativa di vigilanza che lo riguarda, inclusi gli esposti o denunce suscettibili, per la loro valenza probatoria, di concorrere all’accertamento di fatti pregiudizievoli per il denunciato” (ex multis cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. II-ter, 26 maggio 2020. n. 5955; TAR Toscana, Sez. I, 3 luglio 2017, n. 898; TAR. Lombardia, Brescia, Sez. I, 12 luglio 2016, n. 980; TAR Lazio, Roma, Sez. III, 1 giugno 2011, n. 4989; Cons. Stato, Sez. V, 19 maggio 2009, n. 3081).

 

ASN: Tar Lazio, criterio del primo ultimo nome non sempre sufficiente a motivare apporto individuale del candidato
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Cade uno dei criteri più noti alla comunità scientifica per la verifica dell’apporto individuale nelle pubblicazioni con più autori.

Come è noto, e come anche nella procedura di abilitazione scientifica nazionale per Professore di prima fascia sottoposta al T.A.R. Lazio era avvenuto, “ai fini della valutazione verrà tenuto conto del criterio della proprietà intellettuale dei lavori presentati (authorship) basata sulla posizione del nome del candidato fra gli autori della pubblicazione; in particolare primo, ultimo (o co-primo dichiarato nel lavoro) o autore corrispondente”.

In ricorso, tuttavia, si era sostenuto che non sempre tale criterio rappresenta una corretta bussola di sistema giacché, anche attraverso altri indici, l’autore può dimostrare il suo contributo rilevante smentendo quello ordinariamente utilizzato.

Il T.A.R. ha aderito a tale tesi. “Orbene, pur ammettendosi che il “posizionamento” del contributo possa assumere, nei giudizi della Commissione, valenza sintomatica dell’apporto dell’autore nei lavori in collaborazione, ai sensi dell’articolo 4 lettera b) del regolamento, deve tuttavia escludersi che la Commissione possa addivenire ad un giudizio complessivo sfavorevole sulle pubblicazioni sulla base di quest’unico parametro, specie se il contributo dell’autore è comunque individuabile attraverso diversi criteri”.

Se, come siamo riusciti a dimostrare in giudizio, “il contributo individuale del ricorrente è oggettivamente accertabile anche in quelle pubblicazioni nelle quali lo stesso non risulta collocato secondo l’ordine previsto nel criterio elaborato” dalla Commissione, ben può il Giudice Amministrativo annullare tale valutazione.

Rileva al riguardo che se «il primo nome, l’ultimo nome e il c.d. “corrisponding” costituiscono di norma i soggetti che contribuiscono in modo preponderante alla stesura di un lavoro scientifico è però anche vero che, in certi casi, l’anzidetta suddivisione non rispecchia effettivamente l’apporto di ogni autore»; in queste ipotesi particolari la “stessa pubblicazione scientifica – che com’è noto è sempre sottoposta a referaggio da parte di soggetti terzi – si preoccupa di precisare il ruolo che ogni autore ha avuto nel lavoro in collaborazione”. Ne consegue che, per lo meno in tali casi, per valutare il rilievo del contributo di ogni autore, non avrebbe significato la “collocazione” dello stesso all’interno dei lavori in collaborazione.

T.A.R. Lazio, Sez. IV, 27 aprile 2022.

Domande di riconoscimento del titolo estero: azione avverso il silenzio.
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Molti docenti hanno inoltrato al Ministero competente l’apposita domanda di riconoscimento del titolo, sia relativo alla materia, sia alla specializzazione sul sostegno, conseguito all’estero ai sensi della direttiva della direttiva 2013/55/U.

Tuttavia, a fronte dell’inoltro dell’istanza di riconoscimento, non è seguita alcuna risposta da parte del Ministero che di fatto continua a serbare un illegittimo silenzio. È noto difatti che il silenzio della pubblica amministrazione è un comportamento inerte che si manifesta a fronte di uno specifico obbligo di provvedere, di emanare un atto e di concludere il procedimento con l’adozione di un provvedimento espresso.

Nel caso di specie si è dinanzi a un silenzio c.d. inadempimento, in quanto collegato ad un specifico obbligo a carico della P.A. di provvedere in ordine all’adozione dell’atto finale.

A parere dello studio è possibile, per coloro che non abbiano ricevuto una risposta espressa all’istanza, presentare, fintanto che perdura l’inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento, apposita azione giudiziale ex art. 117 cpa al fine di ottenere un provvedimento giudiziale che imponga al Ministero di pronunciarsi sulle istanze inevase.

In merito alla tipologia di ricorso da intraprendere lo studio consiglia l’azione di natura individuale in luogo dell’azione di tipo collettivo in quanto si intende evitare possibili pronunce di inammissibilità scaturenti da conflitti di posizione con gli ulteriori ricorrenti, anche potenziali e sopravvenuti, alla luce degli orientamenti giurisprudenziali in tema di inammissibilità dei ricorsi in presenza di posizioni non omogenee (nel caso di specie anche la mera presentazione delle istanze da parte Vostra in differenti date o il tipo di abilitazione conseguita potrebbe dar vita, a parere di chi scrive, ad una pronuncia di inammissibilità) dettata in alcuni casi da eventuali dinieghi o accoglimenti dell’istanza intervenuti nelle more e in modo differente per i ricorrenti.

Trattasi di un'azione volta all'ottenimento di una risposta, sub specie di provvedimento, espressa da parte del Ministero competente che dunque potrà avere contenuto positivo (dunque di riconoscimento) ovvero negativo (diniego al riconoscimento). 

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Il TAR del Lazio sancisce il principio del consolidamento dei candidati ammessi a frequentare con riserva il corso di laurea.
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Anche se vicenda giurisprudenziale, soprattutto dinanzi al TAR del Lazio, non può dirsi conclusa, in particolar modo per quanto riguarda l’orientamento assunto in altri contenziosi dalla Sez. III°, titolare della materia, tuttavia, la Sentenza pervenuta dalla III° Sezione cd “stralcio”, presieduta nell’occasione dall’autorevole Presidente della Sez. III bis, non può non essere considerata.

Infatti, il TAR del Lazio si pronuncia con Sentenza n. 11262/2020 con innovativi principi sulla nota vicenda del consolidamento per una studentessa ammessa illo tempore con Ordinanza Cautelare. Il Collegio della Sez. III Bis, in modo illuminante, si pone il problema dei poteri conformativi del Giudice Amministrativo e dell’esigenza di possibili conseguenze incongrue o asistematiche; per il G.A. bisogna chiarire gli effetti della Sentenza quando sussiste una obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni da interpretare.

Il Collegio del TAR Lazio afferma con chiarezza come non rileva il testo dell’art. 4 comma 2-bis del D.L. 30 giugno 2005 n. 115 (convertito con legge 2005 n. 168); secondo i Giudici del TAR ciò non rileva in quanto il dettato normativo è riferito ad una abilitazione professionale e al superamento di prove d’esame scritte e orali e non ad un test d’ingresso.

Tuttavia vi è ugualmente una situazione di affidamento e buona fede per l’avvio del percorso di studi che, anche se non completato, merita un trattamento similare a quello dell’art. 4 bis per il conseguimento di una abilitazione professionale.

L’esigenza di certezza risulta richiamata anche dalla Corte Costituzionale nella Sentenza del 9 aprile 2008 n. 108.

Per detti motivi “Ne consegue che, nella specie, è applicabile il dettato di cui al richiamato articolo 4, comma 2-bis, del d.l. n. 115/2005 convertito dalla legge, n. 168/2005. Né potrebbe essere diversamente, dal momento che l'appellato, con il superamento degli esami del primo anno, ha dimostrato di essere in grado di frequentare il corso per l'ammissione al quale aveva sostenuto il concorso, consolidando, come detto, l’effettività del titolo alla cui acquisizione erano volte le prove oggetto di controversia.”

Ancora una volta prevale la sostanza sulla forma in conformità a quanto statuito dal nostro Codice di Procedura Civile; ciò interviene in virtù di una interpretazione estensiva ispirata ai canoni di ragionevolezza e logicità, “Del resto, i giudici di questa Sezione, nella sentenza n. 889 del 17 febbraio 2010, con riguardo ad altra fattispecie relativa ad una studentessa, peraltro non destinataria di alcun provvedimento cautelare di ammissione al corso di laurea in odontoiatria, la quale aveva superato, con risultati molto apprezzabili, gli esami dei primi tre anni del corso, hanno privilegiato il predetto criterio avendo la stessa dimostrato, nella sostanza, di essere idonea alla frequenza del corso cui non era stata ammessa (Cons. Stato, Sez. VI, n. 2298 del 28.1.2014)”( parere n. 940/2020).”

Ne consegue, pertanto, che per il TAR del Lazio “risulta applicabile la norma di cui al richiamato art. 4, co. 2 bis, del d.l. n. 115/2005, convertito dalla legge n. 168/2005, atteso che, da un lato, non viene in rilievo una procedura selettiva di tipo comparativo, con conseguente assenza di soggetti controinteressati anche solo potenzialmente lesi dagli effetti del consolidamento della posizione della ricorrente..”

Tutti gli elementi tratteggiati costituiscono motivazioni più che consistenti per giustificare l’applicazione de facto della suddetta normativa al caso di specie.

CORSI DI LAUREA A NUMERO CHIUSO: TAR LAZIO E TAR CATANIA A FAVORE DEL “LEGITTIMO AFFIDAMENTO".
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A distanza di pochi giorni con due diverse pronunce, rispettivamente del TAR Sicilia sezione staccata di Catania, e della Sezione III bis, del TAR Lazio, il Giudice Amministrativo si è espresso in merito all’iter processuale avviato da alcuni studenti, i quali impugnavano gli atti con cui venivano esclusi dalla selezione per l’ammissione ai Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia, Odontoiatria e Protesi Dentaria, nonché Professioni Sanitarie di Tecniche di Radiologia Medica per Indagini.

Ambedue le decisioni, a fronte dell’eterogeneità delle vicende da cui originano, risultano in linea con l’orientamento più volte ribadito dal Consiglio di Stato, in ultimo con la sentenza n. 5263 del 25 luglio 2019, rendendo applicabile, alla materia oggetto del contendere, il principio richiamato dall’art. 4, comma 2 bis, del D.L n. 115/2005, secondo cui “conseguono ad ogni effetto l'abilitazione professionale o il titolo per il quale concorrono i candidati, in possesso dei titoli per partecipare al concorso, che abbiano superato le prove d'esame scritte ed orali previste dal bando, anche se l'ammissione alle medesime o la ripetizione della valutazione da parte della commissione sia stata operata a seguito di provvedimenti giurisdizionali o di autotutela”.

Pur sottolineando le differenze con il caso di specie, ove i ricorrenti ottenevano l’ammissione ad un corso di laurea e non un’abilitazione professionale, entrambi i TAR ha ritenuto sussistente in capo agli stessi ricorrenti “una situazione di affidamento” meritevole di un “trattamento non dissimile a quello previsto dal sopra richiamato art. 4-bis”. Dunque, il Giudice Amministrativo ha posto a fondamento della propria decisione il percorso di studio effettuato dai ricorrenti, i quali avevano, nelle more della decisione di merito, superato un numero consistente di esami universitari ed ottenuto il passaggio ad anni successivi al primo.

Proprio in riferimento all’entità ed al numero degli esami si sostanziavano le differenze tra i due giudizi.

Nell’un caso, nelle more del giudizio, due ricorrenti su tre conseguivano validamente la laurea, la terza – pur nell’incertezza di un giudizio ancora pendente – portava avanti alacremente il proprio percorso di studi, conseguendo le materie sino al penultimo anno.

Nel caso sottoposto all’attenzione del TAR Catania, invece, il Collegio, richiamandosi ad alcune recenti pronunce rese sempre dal Consiglio di Stato (se. VI, nn. 2155/2019 e 2298/2014), ha ribadito la necessità che i giudici facciano ricorso alla “regola più giusta” da applicare al caso concreto, onde addivenire ad un contemperamento tra la normativa astrattamente applicabile e l’esigenza che da siffatta applicazione non scaturiscano “conseguenze incongruenti o asistematiche”. Tale precisazione in punto di giustizia sostanziale ha condotto alla pronuncia di improcedibilità con applicazione al caso di specie del precetto sopra richiamato di cui al co. 2 bis, dell’art. 4 (D.L. n.115/2005), pur non trattandosi di “conseguimento di una abilitazione professionale o di un titolo” così come previsto esplicitamente dalla norma.

Il Collegio del TAR Sicilia, infine, per avvalorare ulteriormente la propria tesi, ha richiamato la pronuncia della Corte Costituzionale n. 108 del 9 aprile 2009, ribadendo fermamente la necessità di “evitare che gli esami si svolgano inutilmente” e di tutelare “l’affidamento del privato, il quale abbia superato le prove di esame”.

Dunque, superando i contrastanti orientamenti giurisprudenziali, i T.A.R. in questione hanno definitivamente stabilizzato la carriera accademica dei ricorrenti, evidenziando come il percorso di studi medio tempore compiuto abbia un peso specifico non sottovalutabile, nella misura in cui rappresenta la prova tangibile di poter utilmente prender parte ai Corsi di Studi per i quali avevano sostenuto il test di selezione, oggetto di impugnativa.

LE RECENTISSIME ORDINANZE DEL TAR LAZIO SULLO SCORRIMENTO DELLA GRADUATORIA DEI 1.851 ALLIEVI AGENTI: I NUOVI PROFILI SOLLEVATI DAL GIUDICE AMMINISTRATIVO E IL COMMENTO DEGLI AVVOCATI MICHELE BONETTI E ALBERTO MARIA CARELLI.
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  1. Premesse.

Il TAR del Lazio torna a pronunciarsi sulla nota vicenda relativa alla procedura amministrativa volta all’assunzione di 1.851 Allievi Agenti della Polizia di Stato, caratterizzata, come analizzato in precedenza, dalla modifica dei requisiti per l’accesso alle prove concorsuali a seguito dell’intervento del Legislatore, che introduceva con legge 11 febbraio 2019 n. 12, in sede di conversione del decreto-legge 135/2018, l’articolo 11, comma 2 bis, lettera b).

Mediante tale intervento normativo, il Legislatore disponeva lo scorrimento della graduatoria della prova scritta svolta nel 2017 ai soli ricorrenti “in possesso, alla data del 1 gennaio 2019, dei requisiti di cui all'articolo 6 del decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1982, n. 335, nel testo vigente alla data di entrata in vigore della legge 30 dicembre 2018, n. 145, fatte salve le disposizioni di cui all'articolo 2049 del citato codice dell'ordinamento militare” per contrasto con gli articoli 97 e 3 della Costituzione”.

Senza ripercorrere l’intera vicenda concorsuale, si ricorda che, a seguito dell’intervento legislativo, numerosi soggetti idonei alla prova scritta perché in possesso dei requisiti inizialmente previsti per l’accesso alla carica di Allievi Agenti (età inferiore a 30 anni e licenza media) si ritrovavano esclusi dal successivo scorrimento, in quanto veniva esplicitamente disposta dal Legislatore l’applicazione dei nuovi requisiti di accesso alla medesima carica nelle more introdotti (età inferiore a 26 anni e conseguimento del diploma di scuola superiore) anche alla procedura de qua.

Sostanzialmente si procedeva allo scorrimento della graduatoria del 2017, ma applicando i nuovi requisiti di età e titolo di studio introdotti successivamente.

Il TAR del Lazio, dopo aver disposto nella fase cautelare l’ammissione con riserva dei ricorrenti alle prove, ha dichiarato “rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 11, comma 2 bis, lettera b) del decreto-legge numero 135 del 2018, introdotto, in sede di conversione del decreto-legge, dalla legge 11 febbraio 2019, numero 12, nella parte in cui dispone: “purché in possesso, alla data del 1 gennaio 2019, dei requisiti di cui all'articolo 6 del decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1982, n. 335, nel testo vigente alla data di entrata in vigore della legge 30 dicembre 2018, n. 145, fatte salve le disposizioni di cui all'articolo 2049 del citato codice dell'ordinamento militare” per contrasto con gli articoli 97 e 3 della Costituzione”.

Ebbene, con recenti ordinanze del 3 luglio 2020 (nn. 7672/2020 e 7673/2020), il TAR del Lazio ha rimesso nuovamente la questione alla Corte Costituzionale, sottolineando ulteriori profili di illegittimità costituzionale ed ampliando il novero degli articoli della Carta Costituzionale di cui si paventa la lesione.

Le nuove ed ulteriori motivazioni del TAR del Lazio rispetto ai requisiti introdotti con la norma contestata.

2.1.Il Giudice Amministrativo ha confermato tutte le osservazioni precedentemente rese in merito al contrasto della norma contestata con gli art. 3 e 97 Cost., evidenziando ulteriori profili di illegittimità costituzionale.

L’irragionevolezza dell’articolo 11, comma 2-bis, lettera b), del decreto-legge n. 135/2018, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 12/2019, si palesa, sottolinea il TAR del Lazio, anche “in riferimento alla deroga alla regola dei 26 anni rappresentata dall’art. 2049 del Codice dell’Ordinamento Militare, che consente una proroga di tre anni per i soggetti che avevano prestato il servizio militare”.

Tale disposizione, prevista anche per l’originario concorso e mantenuta dal Legislatore, ha comportato la paradossale circostanza per cui tra i candidati convocati nel 2017 siano presenti soggetti ultratrentenni, molto più “vecchi” dei ricorrenti e che non avrebbero avuto, alla data del 1 gennaio 2019 indicata nel noto emendamento, i requisiti ivi previsti.

Sulla scorta di tali considerazioni, il TAR del Lazio ha evidenziato l’irragionevolezza della previsione normativa per violazione dell’art. 3 della Costituzione, poiché se l’intento del Legislatore fosse stato realmente quello di ringiovanimento delle Forze di Polizia, la novella legislativa avrebbe dovuto eliminare anche la possibilità di elevazione del termine dei 26 anni ai sensi dell’art. 2049 del Codice dell’Ordinamento Militare.

Inoltre, il Giudice Amministrativo ha, per la prima volta, evidenziato profili di lesione anche in relazione all’art. 51, primo comma, della Costituzione, il quale, “nel demandare al legislatore la fissazione dei requisiti in base ai quali tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici, non intende, certo, sottrarre tale potere a qualsivoglia sindacato di legittimità costituzionale sotto il profilo della congruità e della ragionevolezza delle limitazioni previste[1].

Lo stesso art. 51, infatti, vincola il legislatore a sottoporre la propria discrezionalità di scelta ai rigorosi parametri posti dall’art. 3 della Costituzione. Il requisito dei 26 anni di età per l’accesso alle prove successive, laddove si consente l’elevazione di tale termine ex art. 2049 Codice dell’Ordinamento Militare, comporta una limitazione irragionevole all’accesso ai pubblici uffici, in violazione del divieto contenuto nel principio di eguaglianza garantito dall’art. 3, primo comma, della Costituzione, nonché un’irragionevole limitazione alla posizione costituzionalmente garantita a ogni cittadino dall’art. 51, primo comma, della Costituzione.

Queste disposizioni “sanciscono la protezione della persona da ogni ingiustificata limitazione nell’accesso all’impiego pubblico, che inciderebbe sulla possibilità, a parità di requisiti di idoneità, di svolgere un’attività conforme alle proprie propensioni ed attitudini e di concorrere con essa al progresso della società[2].

Nel caso in parola, tale possibilità è stata preclusa ai ricorrenti a causa dell’introduzione di una norma che ha previsto un requisito, quello dell’età inferiore ai 26 anni, di cui erano in possesso al momento del bando e per cui, peraltro, la stessa norma ha mantenuto una possibilità di deroga in favore di altri candidati con un punteggio inferiore e, dunque, meno meritevoli.

2.2.Per la prima volta, inoltre, il TAR del Lazio pone l’attenzione sul termine previsto dalla normativa del 2019 per il possesso dei nuovi requisiti, ossia il 1 gennaio 2019.

Ebbene, il Giudice Amministrativo in merito censura la scelta del Legislatore per manifesta irragionevolezza, in quanto il riferimento temporale sembra avulso da qualsivoglia logica se rapportato al titolo di studio, poiché “è circostanza notoria che qualsiasi diploma di scuola secondaria viene conseguito al termine dell’anno scolastico, all’esito del relativo ciclo di studi”. Ne deriva che “la fissazione della data del 1 gennaio, in luogo ad esempio di quella della conclusione del ciclo di studi nel luglio/agosto successivo o, se del caso, dell’anno precedente – come di regola previsto per i concorsi che prevedono il conseguimento di un titolo di studio – appare arbitraria, irragionevole e violativa del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione nonché dell’art. 51 comma primo della Costituzione”.

  1. I dubbi del TAR del Lazio sulla legittimità dell’iter di formazione della norma contestata.

Il TAR del Lazio ha, infine, sollevato per la prima volta dubbi sulla legittimità costituzionale della norma di cui all’art. 11, comma 2 bis, lett. b), del D.L. 14/12/2018 n. 135 anche con riguardo all’iter formativo che ha condotto alla sua emanazione, per contrasto con l’art. 77 Cost.

La giurisprudenza costituzionale, in riferimento all’attività legislativa di modificazione o integrazione del decreto legge in sede di conversione, ha fissato dei precisi limiti entro cui tale attività deve intervenire, dichiarando costituzionalmente illegittime le norme che tali confini avessero oltrepassato.

In particolare, la Corte Costituzionale ha statuito che “la legge di conversione segue un iter parlamentare semplificato e caratterizzato dal rispetto di tempi particolarmente rapidi, che si giustificano alla luce della sua natura di legge funzionalizzata alla stabilizzazione di un provvedimento avente forza di legge, emanato provvisoriamente dal Governo e valido per un lasso temporale breve e circoscritto.”. Da tale funzione derivano necessariamente dei limiti che la legge di conversione deve rispettare, pena l’illegittimità costituzionale.

Dunque, continua la Corte Costituzionale, “l’inclusione di emendamenti e articoli aggiuntivi che non siano attinenti alla materia oggetto del decreto-legge, o alle finalità di quest’ultimo, determina un vizio della legge di conversione in parte qua. (…). In relazione a questa tipologia di atti – che di per sé non sono esenti da problemi rispetto al requisito dell’omogeneità – ogni ulteriore disposizione introdotta in sede di conversione deve essere strettamente collegata ad uno dei contenuti già disciplinati dal decreto-legge ovvero alla ratio dominante del provvedimento originario considerato nel suo complesso. (…) L’eterogeneità delle disposizioni aggiunte in sede di conversione determina, dunque, un vizio procedurale delle stesse, che come ogni altro vizio della legge spetta solo a questa Corte accertare. Si tratta di un vizio procedurale peculiare che per sua stessa natura può essere evidenziato solamente attraverso un esame del contenuto sostanziale delle singole disposizioni aggiunte in sede parlamentare, posto a raffronto con l’originario decreto-legge. All’esito di tale esame, le eventuali disposizioni intruse risulteranno affette da vizio di formazione, per violazione dell’art. 77 Cost., mentre saranno fatte salve tutte le componenti dell’atto che si pongano in linea di continuità sostanziale, per materia o per finalità, con l’originario decreto-legge”.[3]

Ebbene, il TAR del Lazio, richiamando i principi statuiti dal Giudice delle Leggi, ha affermato che “nel caso di specie, come è agevolmente riscontrabile dal semplice raffronto tra i testi e dai avori preparatori -  l’introduzione, con legge di conversione, dei nuovi requisiti non solo è totalmente estranea rispetto al contenuto originario dell’art. 11 del D.L. 135/2018, ma si pone altresì in contrasto con le finalità di semplificazione previste dal Decreto-Legge stesso, in quanto ha costretto l’Amministrazione alla verifica di ulteriori e nuovi requisiti non previsti nel bando originario”.

Alla luce di ciò, secondo il Giudice Amministrativo, l’applicazione dei nuovi requisiti alla procedura de qua, fermi restando i dubbi di legittimità costituzionale in merito alla lesione dei principi del legittimo affidamento e di parità di trattamento, nonché degli artt. 3 e 97 Cost., avrebbe dovuto essere prevista con strumenti normativi differenti rispetto alla legge di conversione, poiché la “manifesta mancanza di ogni nesso di interrelazione tra le disposizioni incorporate nella legge di conversione e quelle dell’originario decreto-legge inficia di per sé la legittimità costituzionale della norma introdotta con la legge di conversione”.[4]

Avv. Michele Bonetti

Avv. Alberto Maria Carelli

 

 

 



[1]Sentenza Corte Costituzionale, sentenza n. 108/1994.

[2]Sentenza Corte Costituzionale, sentenza n. 188/1994.

 

[3]v. Corte Costituzionale, Sentenza 12/02/2014 n. 34.

[4]Corte Costituzionale, sentenza n. 247/2019.

IL TAR DEL LAZIO RIMETTE LA QUESTIONE DI LEGITTIMITA’ ALLA CORTE COSTITUZIONALE PER LO SCORRIMENTO DELLA GRADUATORIA DEI 1.851 ALLIEVI AGENTI: IL COMMENTO DEGLI AVVOCATI MICHELE BONETTI E ALBERTO MARIA CARELLI.
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Con una lunga e motivata ordinanza resa in data 25 maggio 2020, il TAR del Lazio, sezione I quater, si è pronunciato in merito alle legittimità dell’operato del legislatore in riferimento al concorso per l’assunzione di 1.851 allievi agenti.

Ebbene, il TAR del Lazio ha dichiarato “rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 11, comma 2 bis, lettera b) del decreto-legge numero 135 del 2018, introdotto, in sede di conversione del decreto-legge, dalla legge 11 febbraio 2019, numero 12, nella parte in cui dispone: “purché in possesso, alla data del 1 gennaio 2019, dei requisiti di cui all'articolo 6 del decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1982, n. 335, nel testo vigente alla data di entrata in vigore della legge 30 dicembre 2018, n. 145, fatte salve le disposizioni di cui all'articolo 2049 del citato codice dell'ordinamento militare” per contrasto con gli articoli 97 e 3 della Costituzione”.

Premesse.

Il Ministero dell’Interno, con decreto del 18 maggio 2017, aveva indetto un concorso pubblico per il reclutamento di 893 agenti di polizia, ove tra i requisiti per la partecipazione al concorso era previsto un limite massimo di età pari ad anni 30 e il possesso del titolo di studio della licenza media inferiore.

Nella graduatoria definitiva del concorso, oltre ai vincitori, venivano inseriti tutti i candidati che avevano riportato almeno la sufficienza nella prova scritta, ma non erano stati convocati, per mancanza di posti disponibili, alle ulteriori prove selettive psicofisiche ed attitudinali.

Si trattava quindi di candidati non ancora idonei, non avendo essi completato la selezione concorsuale, ma potenzialmente interessati ad eventuali provvedimenti di scorrimento della graduatoria, qualora si fossero resi disponibili ulteriori posti da coprire senza l’espletamento di un nuovo concorso.

Dopo la conclusione del concorso, il Regolamento che stabilisce i requisiti di partecipazione ai concorsi pubblici per l’accesso alla qualifica di agente di polizia (D.P.R. 24/04/1982, n. 335, Ordinamento del personale della Polizia di Stato che espleta funzioni di polizia) veniva modificato dall'art. 1, comma 1, lett. e), n. 1), D.lgs. 29 maggio 2017, n. 95, prevedendo l’abbassamento dell’età massima a 26 anni ed il necessario possesso del diploma di scuola superiore di secondo grado.

Mediante la successiva legge 11 febbraio 2019, numero 12, che ha modificato, in sede di conversione, l’articolo 11 del decreto-legge numero 135 del 2018, veniva introdotto il comma 2 bis, il quale prevedeva: “Al fine di semplificare le procedure per la copertura dei posti non riservati ai sensi dell'articolo 703, comma 1, lettera c), del codice dell'ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, è autorizzata l'assunzione degli allievi agenti della Polizia di Stato, nei limiti delle facoltà assunzionali non soggette alle riserve di posti di cui al citato articolo 703, comma 1, lettera c) e nel limite massimo di 1.851 posti, mediante scorrimento della graduatoria della prova scritta di esame del concorso pubblico per l'assunzione di 893 allievi agenti della Polizia di Stato bandito con decreto del Capo della Polizia - Direttore generale della pubblica sicurezza del 18 maggio 2017, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale - 4a Serie speciale - n. 40 del 26 maggio 2017. L'Amministrazione della pubblica sicurezza procede alle predette assunzioni: b) limitatamente ai soggetti risultati idonei alla relativa prova scritta d'esame e secondo l'ordine decrescente del voto in essa conseguito, ferme restando le riserve e le preferenze applicabili secondo la normativa vigente alla predetta procedura concorsuale, purché in possesso, alla data del 1 gennaio 2019, dei requisiti di cui all'articolo 6 del decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1982, n. 335, nel testo vigente alla data di entrata in vigore della legge 30 dicembre 2018, n. 145, fatte salve le disposizioni di cui all'articolo 2049 del citato codice dell'ordinamento militare.”

Dunque, l’ultima parte della novella legislativa adottata nel febbraio 2019 escludeva dalla procedura volta all’assunzione di 1.851 allievi agenti i soggetti che, pur avendo superato la prova scritta, non erano in possesso dei nuovi requisiti di età e titolo di studio introdotti successivamente.

Sostanzialmente si procedeva allo scorrimento della graduatoria del 2017, ma applicando i nuovi requisiti di età e titolo di studio introdotti successivamente.

Così facendo, numerosissimi candidati rimanevano esclusi dalla procedura di assunzione e procedevano ad impugnare i decreti ministeriali che, in attuazione di quanto previsto dalla Legge predetta, convocano alle prove psicofisiche solo candidati con un’età inferiore a 26 anni ed in possesso del diploma di scuola superiore.

Con plurime ordinanze cautelari, il TAR del Lazio ha accolto le istanze dei suddetti ricorrenti, imponendo all’Amministrazione di sottoporli alle prove psicofisiche ed attitudinali. Nonostante l’idoneità ottenuta alle successive prove, questi ultimi non venivano convocati per il successivo corso di formazione. È in tale scenario che si è giunti all’udienza di merito dinanzi al Collegio del TAR del Lazio.

Le motivazioni del TAR del Lazio.

In merito alla rilevanza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, co. 2-bis, del D.L. 135/2018, il Giudice Amministrativo di prime cure si limita giustamente ad evidenziare come “il suo accoglimento da parte della Corte Costituzionale comporterebbe l’annullamento, per invalidità derivata, dei provvedimenti impugnati”, con l’effetto di eliminare i requisiti più restrittivi introdotti dalla disposizione controversa e conseguente assoggettamento della selezione alla disciplina originariamente prevista dal bando del 18 maggio 2017.

Circa la non manifesta infondatezza, in primis il TAR del Lazio ha posto l’attenzione sulla natura di legge-provvedimento della norma contestata, in quanto contenente “disposizioni dirette a destinatari determinati”. Proprio poiché in grado di incidere direttamente sulle posizioni di individui determinati, tali tipologie di norme “devono soggiacere ad un rigoroso scrutinio di legittimità costituzionale per il pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare e derogatorio”.

Il Giudice Amministrativo chiarisce che se la decisione di intervenire sulla graduatoria della prova scritta fosse stata eseguita con un atto amministrativo, “non vi è dubbio che quell’atto sarebbe stato annullato dal giudice amministrativo per palese illegittimità” poiché “costituisce jus receptum nell’ordinamento il principio che, di regola, la disciplina dei requisiti di ammissione ai pubblici concorsi non può essere modificata allorquando il concorso sia già in itinere[1]. Trattandosi, tuttavia, di atto formalmente legislativo, al privato cittadino è consentito chiedere al giudice adito la rimessione della questione di legittimità della legge provvedimento alla Corte Costituzionale.

La norma controversa presenta un’evidente natura retroattiva, posto che produce effetti su una graduatoria formata nel 2017. Al legislatore non è preclusa la possibilità di emanare norme-provvedimento con effetti retroattivi, purché tale scelta sia giustificata sul piano della ragionevolezza, attraverso un puntuale bilanciamento tra le ragioni che ne hanno motivato la previsione e i valori potenzialmente lesi dall’efficacia a ritroso della norma adottata[2].

Sul punto, il TAR “dubita della conformità della norma censurata ai canoni di legittimità”, in quanto lesiva del principio di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento. Più in particolare, poiché modifica i requisiti di partecipazione alle prove in corso, l’agere del Legislatore determina, ad avviso del TAR, una violazione del principio di tutela dell’affidamento riposto dai candidati nel bando di concorso, a cui partecipavano nel 2017. Il legittimo affidamento è un principio strettamente correlato ai concetti di concretezza, buona fede ed auto responsabilità di matrice privatistica che, negli ultimi anni, hanno trovato sempre più applicazione nel campo del diritto amministrativo anche sotto la spinta del diritto comunitario; nel caso di specie, l’affidamento sorgeva a seguito di un comportamento dell’Amministrazione, che determinava una posizione di vantaggio in capo ai ricorrenti consistente nella presenza in una graduatoria a cui la PA decideva di attingere ai fini dell’assunzione del nuovo contingente bandito. Detta circostanza non poteva che indurre i medesimi a sperare in una futura evoluzione di tale situazione preordinata all’effettiva assunzione.

Non solo. Secondo la tesi del Giudice Amministrativo, “emerge anche il profilo discriminatorio e lesivo del principio di imparzialità della P.A. da cui sembra affetta la norma in esame”. Difatti, all’atto dell’approvazione della legge-provvedimento, i destinatari esclusi dalla stessa erano “immediatamente e aprioristicamente individuabili, tanto dal Legislatore, quanto dalla Pubblica Amministrazione, essendo pubblica la graduatoria di merito ed essendo note l’età anagrafica e il titolo di studio di ciascuno dei candidati classificati in posizione potenzialmente utile per beneficiare dello scorrimento della graduatoria”.  Pertanto, “i nuovi, restrittivi requisiti di assunzione, andando ad applicarsi su una platea di destinatari completamente definita, hanno consentito alla P.A. di scegliere taluni soggetti, già noti, così favorendoli, e di escluderne altri, parimenti riconoscibili”.

Così facendo, si è leso il principio di imparzialità dell’azione amministrativa, sancito dall’art. 97 della Costituzione, che deve ovviamente essere posto alla base di qualsivoglia procedura concorsuale.

In sostanza, la disposizione normativa qui censurata ha consapevolmente orientato l’azione amministrativa a tutto vantaggio di un gruppo di soggetti “nominativamente individuabili” prima dell’adozione del provvedimento legislativo.

In tal modo risulta violato anche il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione.

Il Collegio paventa altresì una lesione del principio meritocratico che dovrebbe guidare l’azione amministrativa nello svolgimento delle procedure concorsuali[3]. Applicando la norma in questione, infatti, l’Amministrazione ha proceduto a convocare soggetti con un punteggio inferiore solo perché più giovani rispetto a candidati con un punteggio superiore.

Alla luce di tali considerazioni il TAR del Lazio ha ritenuto irragionevole, e dunque meritevole di essere sottoposto al sindacato di legittimità costituzionale, la scelta del Legislatore di attingere da una graduatoria concorsuale modificando retroattivamente i requisiti di ammissione, così da determinare l’esclusione dei candidati privi dei nuovi titoli richiesti dalla procedura di assunzione.

Avv. Michele Bonetti

Avv. Alberto Maria Carelli



[1](Cons. Stato, Sez. III, 30.09.2015, n. 4573)

[2] Sentenza Corte Costituzionale, 12.04.2017, n. 73, nonché sentenza Corte Costituzionale n. 137/2019.

[3]Si vedano in merito, ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, ord. 18 giugno 2012, n. 3541, Cons. Stato, Sez. VI, 26 febbraio 2014, n. 839; T.A.R. Lazio, Sez. III, 7 dicembre 2012, n. 4453.

DIFETTO DI MOTIVAZIONE E GIUDIZI DI INIDONEITA’ ALL’ABILITAZIONE SCIENTIFICA NAZIONALE
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In data 03 gennaio 2020 il T.A.R. del Lazio pubblica un’importante sentenza di merito, ancora una volta, relativa al concorso nazionale per l’abilitazione a professori universitari.

La sentenza, tra i primissimi provvedimenti del nuovo anno, pone l’accento sulla necessarietà di un’adeguata motivazione del provvedimento adottato dalle Commissioni, dunque su uno dei requisiti dell’atto amministrativo, nei giudizi per conseguire l’abilitazione nazionale.

Secondo il Tribunale di Roma la valutazione adottata dal MIUR sarebbe stata viziata da una “palese parzialità”, avendo la Commissione giudicato solo su alcuni aspetti del curriculum scientifico della candidata in questione e senza una congrua motivazione imposta dalla legge.

La candidata, in possesso di tutti i requisiti previsti dal bando di selezione, aveva ottenuto un giudizio negativo frutto di un’apodittica comparazione tra il proprio curriculum scientifico- professionale e quello di un’altra candidata. Per i due candidati, di cui venivano posti a confronto i curricula, i medesimi lavori frutto della ricerca scientifica, anche svolta in collaborazione, venivano valutati in maniera opposta, concedendo l’abilitazione solo ad una delle due. La commissione di concorso non aveva opportunamente valutato parte delle pubblicazioni in cui era ricavabile il contributo personale della ricercatrice, fermandosi al solo confronto negativo su alcuni lavori.

La parzialità della motivazione resa comporta l’illegittimità del giudizio e l’annullabilità del provvedimento amministrativo, integrando la violazione di legge e, nello specifico, dell’art. 3 della legge n. 241/90.

Nel caso delle procedure abilitative in questione, ha sottolineato il Giudice Amministrativo, “occorre procedere sia ad una sintetica descrizione delle pubblicazioni presentate sia ad un sintetico esame delle stesse, che non tutte le Commissioni svolgono, ed individuare chiaramente le ragioni che hanno giustificato la formulazione del giudizio negativo”.

È evidente che quanto opportunamente evidenziato dall’Organo di Giustizia Amministrativa sia frutto di una molteplicità e varietà di problematiche riscontrabili in una procedura tanto complessa, come quella che ha riguardato la pronuncia qui in esame. Da tali problematiche non è insolito ricavare vizi della procedura che possano comportare l’annullamento con l’effetto di una nuova e corretta valutazione.

La procedura per ottenere l’abilitazione a Professore Universitario di nuovo al vaglio del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio.
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Trattiamo, in questa sede, di una procedura concorsuale che è stata al centro di una profonda innovazione negli ultimi anni ma, non per questo, risulta essere esente da critiche e vizi di forma.

Ad essere analizzata è un’ultima sentenza pubblicata dal T.A.R. del Lazio, ove l’intervento dei Giudici veniva invocato a seguito di un giudizio negativo sulla domanda di abilitazione a professore ordinario di un noto e stimato docente e ricercatore nel panorama italiano.

Il contenzioso, instaurato con il patrocinio dello Studio Legale Bonetti & Delia con ricorso giurisdizionale dinanzi al predetto Tribunale romano, vedeva contestati i giudizi resi da una Commissione di cinque membri designati dal Ministero dell’Istruzione, incaricati della valutazione delle domande sottoposte da diversi candidati.