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IL CONSIGLIO DI STATO SUGLI ONERI DECADENZIALI DELLE GRADUATORIE DI MEDICINA E ODONTOIATRIA
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È stato pubblicato oggi un nuovo ed importantissimo provvedimento, a firma dell’Ecc.mo Presidente del Consiglio di Stato, con il quale si introduce un’importante apertura in tema di accesso programmato ai corsi di laurea di Medicina ed Odontoiatria.

Trattasi di un’ordinanza cautelare in cui il Supremo Collegio prende posizione in maniera netta ed innovativa sulla nota questione della decadenza dalle graduatorie per non aver effettuato la conferma di interesse disciplinata dall’art. 10 del D.M. n. 337/2018.

La rilevanza del pronunciamento riguarda il fatto che trattasi di una nuova giurisprudenza del Supremo Consiglio di Stato, resa in grado di appello, che può aprire la strada ai ricorrenti che incolpevolmente risultano decaduti.

Con il provvedimento viene accolto il ricorso collettivo patrocinato dagli Avv.ti Michele Bonetti e Santi Delia, consentendo l’immatricolazione con riserva ai ricorrenti con punteggio elevato conseguito ai test.

Il tema è sempre quello della mancata assegnazione dei posti disponibili e non banditi, già accolto con ordinanze e sentenze del G.A.

Nel caso di specie, viene affermato che “la Sezione tuttavia non ravvisa gli estremi della decadenza ex art. 10 lett. d) del D.M. n. 337/2018, sul rilievo che il mancato adempimento all’onere di conferma dell’interesse a rimanere nella graduatoria deve risultare da prova certa (…) prova che però nella specie non è stata data”.

Nell’interessante caso in esame si pone in capo all’Amministrazione l’onere di dimostrare che l’intervenuta decadenza sia imputabile al candidato che ha proposto ricorso, imponendo l’obbligo di un avviso formale ai sensi della legge sul procedimento amministrativo. Non basta dunque il semplice rilievo processuale dell’eccezione di decadenza “ed è appena il caso di rilevare che l’Amministrazione invoca la decadenza del candidato per la prima volta in questa sede, senza averla mai prima contestata all’interessata, in spregio dell’art. 10-bis della legge 241 del 1990”.

Infine, in questo periodo molto particolare e alla luce della grave emergenza sanitaria, non mancano spunti di dibattito che portino a ridefinite molte delle norme che limitano l’accesso al mondo universitario.

CORSI DI LAUREA A NUMERO CHIUSO: TAR LAZIO E TAR CATANIA A FAVORE DEL “LEGITTIMO AFFIDAMENTO".
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A distanza di pochi giorni con due diverse pronunce, rispettivamente del TAR Sicilia sezione staccata di Catania, e della Sezione III bis, del TAR Lazio, il Giudice Amministrativo si è espresso in merito all’iter processuale avviato da alcuni studenti, i quali impugnavano gli atti con cui venivano esclusi dalla selezione per l’ammissione ai Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia, Odontoiatria e Protesi Dentaria, nonché Professioni Sanitarie di Tecniche di Radiologia Medica per Indagini.

Ambedue le decisioni, a fronte dell’eterogeneità delle vicende da cui originano, risultano in linea con l’orientamento più volte ribadito dal Consiglio di Stato, in ultimo con la sentenza n. 5263 del 25 luglio 2019, rendendo applicabile, alla materia oggetto del contendere, il principio richiamato dall’art. 4, comma 2 bis, del D.L n. 115/2005, secondo cui “conseguono ad ogni effetto l'abilitazione professionale o il titolo per il quale concorrono i candidati, in possesso dei titoli per partecipare al concorso, che abbiano superato le prove d'esame scritte ed orali previste dal bando, anche se l'ammissione alle medesime o la ripetizione della valutazione da parte della commissione sia stata operata a seguito di provvedimenti giurisdizionali o di autotutela”.

Pur sottolineando le differenze con il caso di specie, ove i ricorrenti ottenevano l’ammissione ad un corso di laurea e non un’abilitazione professionale, entrambi i TAR ha ritenuto sussistente in capo agli stessi ricorrenti “una situazione di affidamento” meritevole di un “trattamento non dissimile a quello previsto dal sopra richiamato art. 4-bis”. Dunque, il Giudice Amministrativo ha posto a fondamento della propria decisione il percorso di studio effettuato dai ricorrenti, i quali avevano, nelle more della decisione di merito, superato un numero consistente di esami universitari ed ottenuto il passaggio ad anni successivi al primo.

Proprio in riferimento all’entità ed al numero degli esami si sostanziavano le differenze tra i due giudizi.

Nell’un caso, nelle more del giudizio, due ricorrenti su tre conseguivano validamente la laurea, la terza – pur nell’incertezza di un giudizio ancora pendente – portava avanti alacremente il proprio percorso di studi, conseguendo le materie sino al penultimo anno.

Nel caso sottoposto all’attenzione del TAR Catania, invece, il Collegio, richiamandosi ad alcune recenti pronunce rese sempre dal Consiglio di Stato (se. VI, nn. 2155/2019 e 2298/2014), ha ribadito la necessità che i giudici facciano ricorso alla “regola più giusta” da applicare al caso concreto, onde addivenire ad un contemperamento tra la normativa astrattamente applicabile e l’esigenza che da siffatta applicazione non scaturiscano “conseguenze incongruenti o asistematiche”. Tale precisazione in punto di giustizia sostanziale ha condotto alla pronuncia di improcedibilità con applicazione al caso di specie del precetto sopra richiamato di cui al co. 2 bis, dell’art. 4 (D.L. n.115/2005), pur non trattandosi di “conseguimento di una abilitazione professionale o di un titolo” così come previsto esplicitamente dalla norma.

Il Collegio del TAR Sicilia, infine, per avvalorare ulteriormente la propria tesi, ha richiamato la pronuncia della Corte Costituzionale n. 108 del 9 aprile 2009, ribadendo fermamente la necessità di “evitare che gli esami si svolgano inutilmente” e di tutelare “l’affidamento del privato, il quale abbia superato le prove di esame”.

Dunque, superando i contrastanti orientamenti giurisprudenziali, i T.A.R. in questione hanno definitivamente stabilizzato la carriera accademica dei ricorrenti, evidenziando come il percorso di studi medio tempore compiuto abbia un peso specifico non sottovalutabile, nella misura in cui rappresenta la prova tangibile di poter utilmente prender parte ai Corsi di Studi per i quali avevano sostenuto il test di selezione, oggetto di impugnativa.

LE RECENTISSIME ORDINANZE DEL TAR LAZIO SULLO SCORRIMENTO DELLA GRADUATORIA DEI 1.851 ALLIEVI AGENTI: I NUOVI PROFILI SOLLEVATI DAL GIUDICE AMMINISTRATIVO E IL COMMENTO DEGLI AVVOCATI MICHELE BONETTI E ALBERTO MARIA CARELLI.
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  1. Premesse.

Il TAR del Lazio torna a pronunciarsi sulla nota vicenda relativa alla procedura amministrativa volta all’assunzione di 1.851 Allievi Agenti della Polizia di Stato, caratterizzata, come analizzato in precedenza, dalla modifica dei requisiti per l’accesso alle prove concorsuali a seguito dell’intervento del Legislatore, che introduceva con legge 11 febbraio 2019 n. 12, in sede di conversione del decreto-legge 135/2018, l’articolo 11, comma 2 bis, lettera b).

Mediante tale intervento normativo, il Legislatore disponeva lo scorrimento della graduatoria della prova scritta svolta nel 2017 ai soli ricorrenti “in possesso, alla data del 1 gennaio 2019, dei requisiti di cui all'articolo 6 del decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1982, n. 335, nel testo vigente alla data di entrata in vigore della legge 30 dicembre 2018, n. 145, fatte salve le disposizioni di cui all'articolo 2049 del citato codice dell'ordinamento militare” per contrasto con gli articoli 97 e 3 della Costituzione”.

Senza ripercorrere l’intera vicenda concorsuale, si ricorda che, a seguito dell’intervento legislativo, numerosi soggetti idonei alla prova scritta perché in possesso dei requisiti inizialmente previsti per l’accesso alla carica di Allievi Agenti (età inferiore a 30 anni e licenza media) si ritrovavano esclusi dal successivo scorrimento, in quanto veniva esplicitamente disposta dal Legislatore l’applicazione dei nuovi requisiti di accesso alla medesima carica nelle more introdotti (età inferiore a 26 anni e conseguimento del diploma di scuola superiore) anche alla procedura de qua.

Sostanzialmente si procedeva allo scorrimento della graduatoria del 2017, ma applicando i nuovi requisiti di età e titolo di studio introdotti successivamente.

Il TAR del Lazio, dopo aver disposto nella fase cautelare l’ammissione con riserva dei ricorrenti alle prove, ha dichiarato “rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 11, comma 2 bis, lettera b) del decreto-legge numero 135 del 2018, introdotto, in sede di conversione del decreto-legge, dalla legge 11 febbraio 2019, numero 12, nella parte in cui dispone: “purché in possesso, alla data del 1 gennaio 2019, dei requisiti di cui all'articolo 6 del decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1982, n. 335, nel testo vigente alla data di entrata in vigore della legge 30 dicembre 2018, n. 145, fatte salve le disposizioni di cui all'articolo 2049 del citato codice dell'ordinamento militare” per contrasto con gli articoli 97 e 3 della Costituzione”.

Ebbene, con recenti ordinanze del 3 luglio 2020 (nn. 7672/2020 e 7673/2020), il TAR del Lazio ha rimesso nuovamente la questione alla Corte Costituzionale, sottolineando ulteriori profili di illegittimità costituzionale ed ampliando il novero degli articoli della Carta Costituzionale di cui si paventa la lesione.

Le nuove ed ulteriori motivazioni del TAR del Lazio rispetto ai requisiti introdotti con la norma contestata.

2.1.Il Giudice Amministrativo ha confermato tutte le osservazioni precedentemente rese in merito al contrasto della norma contestata con gli art. 3 e 97 Cost., evidenziando ulteriori profili di illegittimità costituzionale.

L’irragionevolezza dell’articolo 11, comma 2-bis, lettera b), del decreto-legge n. 135/2018, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 12/2019, si palesa, sottolinea il TAR del Lazio, anche “in riferimento alla deroga alla regola dei 26 anni rappresentata dall’art. 2049 del Codice dell’Ordinamento Militare, che consente una proroga di tre anni per i soggetti che avevano prestato il servizio militare”.

Tale disposizione, prevista anche per l’originario concorso e mantenuta dal Legislatore, ha comportato la paradossale circostanza per cui tra i candidati convocati nel 2017 siano presenti soggetti ultratrentenni, molto più “vecchi” dei ricorrenti e che non avrebbero avuto, alla data del 1 gennaio 2019 indicata nel noto emendamento, i requisiti ivi previsti.

Sulla scorta di tali considerazioni, il TAR del Lazio ha evidenziato l’irragionevolezza della previsione normativa per violazione dell’art. 3 della Costituzione, poiché se l’intento del Legislatore fosse stato realmente quello di ringiovanimento delle Forze di Polizia, la novella legislativa avrebbe dovuto eliminare anche la possibilità di elevazione del termine dei 26 anni ai sensi dell’art. 2049 del Codice dell’Ordinamento Militare.

Inoltre, il Giudice Amministrativo ha, per la prima volta, evidenziato profili di lesione anche in relazione all’art. 51, primo comma, della Costituzione, il quale, “nel demandare al legislatore la fissazione dei requisiti in base ai quali tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici, non intende, certo, sottrarre tale potere a qualsivoglia sindacato di legittimità costituzionale sotto il profilo della congruità e della ragionevolezza delle limitazioni previste[1].

Lo stesso art. 51, infatti, vincola il legislatore a sottoporre la propria discrezionalità di scelta ai rigorosi parametri posti dall’art. 3 della Costituzione. Il requisito dei 26 anni di età per l’accesso alle prove successive, laddove si consente l’elevazione di tale termine ex art. 2049 Codice dell’Ordinamento Militare, comporta una limitazione irragionevole all’accesso ai pubblici uffici, in violazione del divieto contenuto nel principio di eguaglianza garantito dall’art. 3, primo comma, della Costituzione, nonché un’irragionevole limitazione alla posizione costituzionalmente garantita a ogni cittadino dall’art. 51, primo comma, della Costituzione.

Queste disposizioni “sanciscono la protezione della persona da ogni ingiustificata limitazione nell’accesso all’impiego pubblico, che inciderebbe sulla possibilità, a parità di requisiti di idoneità, di svolgere un’attività conforme alle proprie propensioni ed attitudini e di concorrere con essa al progresso della società[2].

Nel caso in parola, tale possibilità è stata preclusa ai ricorrenti a causa dell’introduzione di una norma che ha previsto un requisito, quello dell’età inferiore ai 26 anni, di cui erano in possesso al momento del bando e per cui, peraltro, la stessa norma ha mantenuto una possibilità di deroga in favore di altri candidati con un punteggio inferiore e, dunque, meno meritevoli.

2.2.Per la prima volta, inoltre, il TAR del Lazio pone l’attenzione sul termine previsto dalla normativa del 2019 per il possesso dei nuovi requisiti, ossia il 1 gennaio 2019.

Ebbene, il Giudice Amministrativo in merito censura la scelta del Legislatore per manifesta irragionevolezza, in quanto il riferimento temporale sembra avulso da qualsivoglia logica se rapportato al titolo di studio, poiché “è circostanza notoria che qualsiasi diploma di scuola secondaria viene conseguito al termine dell’anno scolastico, all’esito del relativo ciclo di studi”. Ne deriva che “la fissazione della data del 1 gennaio, in luogo ad esempio di quella della conclusione del ciclo di studi nel luglio/agosto successivo o, se del caso, dell’anno precedente – come di regola previsto per i concorsi che prevedono il conseguimento di un titolo di studio – appare arbitraria, irragionevole e violativa del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione nonché dell’art. 51 comma primo della Costituzione”.

  1. I dubbi del TAR del Lazio sulla legittimità dell’iter di formazione della norma contestata.

Il TAR del Lazio ha, infine, sollevato per la prima volta dubbi sulla legittimità costituzionale della norma di cui all’art. 11, comma 2 bis, lett. b), del D.L. 14/12/2018 n. 135 anche con riguardo all’iter formativo che ha condotto alla sua emanazione, per contrasto con l’art. 77 Cost.

La giurisprudenza costituzionale, in riferimento all’attività legislativa di modificazione o integrazione del decreto legge in sede di conversione, ha fissato dei precisi limiti entro cui tale attività deve intervenire, dichiarando costituzionalmente illegittime le norme che tali confini avessero oltrepassato.

In particolare, la Corte Costituzionale ha statuito che “la legge di conversione segue un iter parlamentare semplificato e caratterizzato dal rispetto di tempi particolarmente rapidi, che si giustificano alla luce della sua natura di legge funzionalizzata alla stabilizzazione di un provvedimento avente forza di legge, emanato provvisoriamente dal Governo e valido per un lasso temporale breve e circoscritto.”. Da tale funzione derivano necessariamente dei limiti che la legge di conversione deve rispettare, pena l’illegittimità costituzionale.

Dunque, continua la Corte Costituzionale, “l’inclusione di emendamenti e articoli aggiuntivi che non siano attinenti alla materia oggetto del decreto-legge, o alle finalità di quest’ultimo, determina un vizio della legge di conversione in parte qua. (…). In relazione a questa tipologia di atti – che di per sé non sono esenti da problemi rispetto al requisito dell’omogeneità – ogni ulteriore disposizione introdotta in sede di conversione deve essere strettamente collegata ad uno dei contenuti già disciplinati dal decreto-legge ovvero alla ratio dominante del provvedimento originario considerato nel suo complesso. (…) L’eterogeneità delle disposizioni aggiunte in sede di conversione determina, dunque, un vizio procedurale delle stesse, che come ogni altro vizio della legge spetta solo a questa Corte accertare. Si tratta di un vizio procedurale peculiare che per sua stessa natura può essere evidenziato solamente attraverso un esame del contenuto sostanziale delle singole disposizioni aggiunte in sede parlamentare, posto a raffronto con l’originario decreto-legge. All’esito di tale esame, le eventuali disposizioni intruse risulteranno affette da vizio di formazione, per violazione dell’art. 77 Cost., mentre saranno fatte salve tutte le componenti dell’atto che si pongano in linea di continuità sostanziale, per materia o per finalità, con l’originario decreto-legge”.[3]

Ebbene, il TAR del Lazio, richiamando i principi statuiti dal Giudice delle Leggi, ha affermato che “nel caso di specie, come è agevolmente riscontrabile dal semplice raffronto tra i testi e dai avori preparatori -  l’introduzione, con legge di conversione, dei nuovi requisiti non solo è totalmente estranea rispetto al contenuto originario dell’art. 11 del D.L. 135/2018, ma si pone altresì in contrasto con le finalità di semplificazione previste dal Decreto-Legge stesso, in quanto ha costretto l’Amministrazione alla verifica di ulteriori e nuovi requisiti non previsti nel bando originario”.

Alla luce di ciò, secondo il Giudice Amministrativo, l’applicazione dei nuovi requisiti alla procedura de qua, fermi restando i dubbi di legittimità costituzionale in merito alla lesione dei principi del legittimo affidamento e di parità di trattamento, nonché degli artt. 3 e 97 Cost., avrebbe dovuto essere prevista con strumenti normativi differenti rispetto alla legge di conversione, poiché la “manifesta mancanza di ogni nesso di interrelazione tra le disposizioni incorporate nella legge di conversione e quelle dell’originario decreto-legge inficia di per sé la legittimità costituzionale della norma introdotta con la legge di conversione”.[4]

Avv. Michele Bonetti

Avv. Alberto Maria Carelli

 

 

 



[1]Sentenza Corte Costituzionale, sentenza n. 108/1994.

[2]Sentenza Corte Costituzionale, sentenza n. 188/1994.

 

[3]v. Corte Costituzionale, Sentenza 12/02/2014 n. 34.

[4]Corte Costituzionale, sentenza n. 247/2019.

PERSONALE DOCENTE DA DESTINARE ALL'ESTERO: LA SENTENZA DEL TRIBUNALE DI ROMA CAMBIA I VINCOLI TEMPORALI
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È del Tribunale di Roma, sez. Lavoro, la sentenza datata 23 giugno 2020 che ha riammesso una docente al concorso bandito con D.D. M.I.U.R. n. 2021/2018 per la selezione di personale docente da destinare all’estero.

L’azione, intentata e patrocinata dagli Avv.ti Michele Bonetti, Santi Delia e Claudia Palladino, che per primi in tutta Italia, con ricorsi individuali, hanno ottenuto una sentenza di accoglimento con formula piena perseguendo unicamente la via del giudice ordinario, scaturiva dall’esclusione di un’insegnante dal concorso per aver già svolto nove anni di servizio fuori dal territorio nazionale - conformemente alle norme vigenti al momento dell’espletamento dello stesso – diversamente da quanto previsto dall’art. 21 del Decreto Legislativo n. 64/2017 il quale, innovando l’ordinamento del sistema di formazione italiana all’estero, stabiliva che la durata massima del servizio non potesse essere superiore a due periodi, ciascuno dei quali di sei anni scolastici intervallati da ameno sei anni i servizio effettivo in Italia.

Un vincolo temporale illegittimo e contrario a quanto stabilito in materia dal CCNL” commenta l’Avvocato Michele Bonetti “la norma in parola, oltre ad essere in contrasto con la contrattazione collettiva a cui la materia è riservata, ha imposto limiti temporali i quali, in maniera del tutto illogica, spiegano effetti lesivi sul servizio maturato anni addietro ledendo anche il principio cardine secondo cui la Legge non dispone che per l'avvenire”.

Il Tribunale di Roma, nell’accogliere le richieste avanzate ha argomentato che “La ricorrente ha prestato servizio all’estero per un totale di nove anni scolastici (un periodo di cinque anni seguito da un periodo ulteriore di servizio), ultimato nel 2015, e avrà terminato il periodo obbligatorio di servizio espletato in Italia a partire dall’a. s. 2020/2021, circostanza che le permetterà di garantire un nuovo ciclo di servizio all’estero di ulteriori 6 anni (così come previsto da bando) per un totale di 15 anni (come previsto dalle citate disposizioni del CCNL).

Non vi è motivo, dunque, per escludere la ricorrente dalla procedura concorsuale, considerando che rispetta tutti i requisiti curriculari previsti da bando nonché i requisiti in termini di limiti di annualità di servizio prestato e da prestare all’estero in conformità con il CCNL che disciplina la materia.

Ne deriva che il termine di durata del servizio sia illegittimo, così come il decreto di esclusione dal concorso”.

Il G.O., inoltre, ha condannato l’Amministrazione alla refusione delle spese processuali, quantificate in oltre tremila euro.

Si tratta di una decisione molto importante” sottolineano gli Avv.ti Michele Bonetti, Santi Delia e Claudia Palladino, che proseguono “abbiamo sostenuto i docenti che si trovavano in questa situazione credendo nelle loro ragioni e proponendo ricorsi individuali, a nostro avviso strumento maggiormente efficace per l’azione in parola. Ora, forti dell’odierna pronuncia, proseguiremo nella proposizione di azioni ulteriori per tutti gli insegnanti che vertono nella medesima condizione”.