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T.A.R. Lazio: il fascicolo processuale “sfugge alla disciplina” dell’accesso agli atti
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Il T.A.R. Lazio con l’ordinanza n. 3553 del 24 marzo 2021 ha ritenuto di non concedere l’accesso al fascicolo processuale ad un controinteressato sostanziale alle domande spiegate in giudizio.

Come noto, alla luce della disciplina del processo amministrativo telematico (introdotta in attuazione dell'art. 38 D.L. n. 90/2014, convertito in l. 11 agosto 2014, n. 114, a seguito del quale è stato emanato il D.P.C.M. n. 40/2016 avente ad oggetto il “Regolamento recante le regole tecnico-operative per l'attuazione del processo amministrativo telematico” oggi sostituito con D.P.C.S. n. 134/2020) tutti i fascicoli, sia precedenti che successivi alla riforma, sono stati digitalizzati e dunque il fascicolo processuale riferibile al singolo procedimento, contenente tutte le informazioni e dati ad esso riferibile, è oramai tenuto sotto forma di fascicolo informatico.

Diversamente dall’accesso ai provvedimenti del giudice, assicurato tramite pubblicazione sul sito web della giustizia amministrativa a qualunque cittadino, l’accesso al fascicolo informatico è riservato alle sole parti costituite. Solo qualora vi fossero soggetti terzi interessati a visionare il fascicolo di parte al fine di intervenire nel procedimento, il G.A. dovrà, previa specifica e motivata istanza, valutare se consentire l’accesso al fascicolo. Difatti, a norma dell’art. 17, comma 3, del D.P.C.S. n. 134/2020 All. 1 e 2, “L'accesso di cui al comma 1 è altresì consentito ai difensori muniti di procura, agli avvocati domiciliatari, alle parti personalmente nonché, previa autorizzazione del Giudice, a coloro che intendano intervenire volontariamente nel giudizio”.

Nella prassi, ove l’interesse attuale e concreto all’accesso (finalizzato ad intervenire) risulti lampante, il Presidente della sezione può provvedere con decreto ammettendo il terzo richiedente a visionare il fascicolo, diversamente la sussistenza dell’interesse dovrà essere oggetto di valutazione anche per la circostanza che i documenti attinenti al procedimento non sono soggetti alla disciplina dell’accesso di cui alla Legge 241/1990 e soggetti a particolari criteri di riservatezza.

In tal senso si è espresso il TAR del Lazio il quale, dopo aver fissato una specifica udienza al fine di consentire il contraddittorio tra le parti e verificare l’interesse concreto del richiedente, ha respinto la richiesta.

Secondo il T.A.R. ove “l’istanza prov[enga], tramite il suo difensore, da un soggetto che non è parte del giudizio”, deve ritenersi che la stessa non possa trovare accoglimento in quanto “l’accesso agli atti e ai documenti processuali sfugge alla disciplina dettata dagli artt. 22 ss. della l. n. 241/1990” e “nessuna norma consente l’accesso al fascicolo processuale da parte di un soggetto, diverso dalle parti”. Va esclusa, quindi, “la possibilità per i soggetti terzi di accedere agli atti del fascicolo telematico (cfr. Tar Milano, Sez. IV, 22 gennaio 2020, n. 1158; C.G.A.R.S., Sez. I, d.p. n. 150/2020; T.A.R. Campania – Salerno, Sez. II, d. p. n. 902/2018)” (T.A.R. Lazio, Sez. III bis, 24 marzo 2021, n. 3553).

La posizione espressa dal TAR del Lazio è condivisibile, anche in ossequio del diritto alla riservatezza e alla protezione dei dati personali delle parti processuali che, nel caso in cui si optasse per un diritto accesso “indiscriminato” al fascicolo, potrebbe essere minato. In ogni caso non può non osservarsi che l’istanza di accesso al fascicolo informatico proveniente da un avvocato e motivata da esigenze di difesa, ove vi sia un comprovato interesse, non può pregiudicare il diritto dell’interventore ad una piena tutela (alla quale si accede anche attraverso la visione del fascicolo). L’esigenza di riservatezza delle parti processuali, dunque, deve essere contemperata con il diritto di difesa costituzionalmente tutelato.

 

Avv. Claudia Palladino

LA CORTE COSTITUZIONALE CONFERMA L’INESISTENZA DI POTERI LOCALI IN TEMA COVID
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La Corte Costituzionale, con una sentenza di ampio respiro, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della Legge regionale della Valle d’Aosta, ha affrontato, in maniera sistematica, il regime dei poteri (Statali, regionali e locali) in momenti pandemici.

Lo Stato, difatti, aveva impugnato in via diretta innanzi alla Corte Costituzionale la Legge regionale sostenendo, in sintesi, che “non spetterebbe al legislatore regionale introdurre un meccanismo di contrasto all’epidemia che diverge da quello progettato dalla legge dello Stato, quale che sia in concreto il grado di siffatta divergenza”.

Secondo la Corte, “a fronte di malattie altamente contagiose in grado di diffondersi a livello globale, «ragioni logiche, prima che giuridiche» (sentenza n. 5 del 2018) radicano nell’ordinamento costituzionale l’esigenza di una disciplina unitaria, di carattere nazionale, idonea a preservare l’uguaglianza delle persone nell’esercizio del fondamentale diritto alla salute e a tutelare contemporaneamente l’interesse della collettività (sentenze n. 169 del 2017, n. 338 del 2003 e n. 282 del 2002).

Accade, infatti, che ogni decisione in tale materia, per quanto di efficacia circoscritta all’ambito di competenza locale, abbia un effetto a cascata, potenzialmente anche significativo, sulla trasmissibilità internazionale della malattia, e comunque sulla capacità di contenerla (…). Né si tratta soltanto di questo. Un’azione o un coordinamento unitario può emergere come corrispondente alla distribuzione delle competenze costituzionali e alla selezione del livello di governo adeguato ai sensi dell’art. 118 Cost., per ogni profilo di gestione di una crisi pandemica, per il quale appaia invece, secondo il non irragionevole apprezzamento del legislatore statale, inidoneo il frazionamento su base regionale e locale delle attribuzioni“.

Tale conclusione può dunque concernere non soltanto le misure di quarantena e le ulteriori restrizioni imposte alle attività quotidiane, in quanto potenzialmente fonti di diffusione del contagio, ma anche l’approccio terapeutico; i criteri e le modalità di rilevamento del contagio tra la popolazione; le modalità di raccolta e di elaborazione dei dati; l’approvvigionamento di farmaci e vaccini, nonché i piani per la somministrazione di questi ultimi, e così via. In particolare i piani di vaccinazione, eventualmente affidati a presidi regionali, devono svolgersi secondo i criteri nazionali che la normativa statale abbia fissato per contrastare la pandemia in corso“.

E’ profondamente errato, dunque, pensare di poter imporre misure diverse da quelle nazionali richiamando la peculiarità del proprio territorio.

 

Ognuno di tali profili“, contina la Corte, “è solo in apparenza confinabile ad una dimensione territoriale più limitata. Qualora il contagio si sia diffuso sul territorio nazionale, e mostri di potersi diffondere con tali caratteristiche anche oltre di esso, le scelte compiute a titolo di profilassi internazionale si intrecciano le une con le altre, fino a disegnare un quadro che può aspirare alla razionalità, solo se i tratti che lo compongono sono frutto di un precedente indirizzo unitario, dotato di una necessaria visione di insieme atta a sostenere misure idonee e proporzionate“.

La Corte, sul punto, per spiegare l’inesistenza di un persistente potere di ORDINANZA CONTINGIBILE E URGENTE REGIONALE O LOCALE IN MATERIA COVID, su cui ci siamo occupati con analoghe conclusioni, ripercorre la previgente legislazione.

Fin dall’art. 32 della legge n. 833 del 1978“, ricorda la Corte, “si è stabilito che il potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti in materia di igiene e sanità pubblica spetti a Regioni ed enti locali, esclusivamente laddove l’efficacia di tali atti possa essere garantita da questo livello di governo, posto che compete invece al Ministro della salute provvedere quando sia necessario disciplinare l’emergenza sull’intero territorio nazionale o su parti di esso comprendenti più RegioniChe con tale previsione il legislatore non abbia inteso riferirsi all’ovvio limite territoriale di tutti gli atti assunti in sede decentrata, ma, piuttosto, alla natura della crisi sanitaria da risolvere, viene poi confermato dall’art. 117 del d.lgs. n. 112 del 1998, che modula tra Comune, Regione e Stato gli interventi emergenziali nella materia qui coinvolta, a seconda «della dimensione dell’emergenza e dell’eventuale interessamento di più ambiti territoriali regionali». Tale disciplina ha poi trovato conferma nell’art. 50, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali)“.

Nel vigore del nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione, infine, l’indirizzo volto ad adattare il governo dell’emergenza, anche sanitaria, al carattere locale o nazionale di essa, ha trovato ulteriore sviluppo con il decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1 (Codice della protezione civile). L’art. 7, comma 1, lettera c), in correlazione con l’art. 24 seguente, radica nello Stato il potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti di protezione civile, acquisita l’intesa con le Regioni e le Province autonome «territorialmente interessate», sicché, ancora una volta, è l’eventuale concentrazione della crisi su di una porzione specifica del territorio ad imporre il coinvolgimento delle autonomie quando, pur a fronte di simile localizzazione, l’emergenza assuma ugualmente “rilievo nazionale”, a causa della inadeguata «capacità di risposta operativa di Regioni ed enti locali» (sentenza n. 327 del 2003; in seguito, sulla necessità di acquisizione dell’intesa in tali casi, sentenza n. 246 del 2019 (…); sentenza n. 284 del 2006)”.

Tale conclusione non può che rafforzarsi a fronte di una pandemia, i cui tratti esigono l’impiego di misure di profilassi internazionale. È quanto successo, difatti, a seguito della diffusione del COVID-19, il quale, a causa della rapidità e della imprevedibilità con cui il contagio si spande, ha imposto l’impiego di strumenti capaci di adattarsi alle pieghe di una situazione di crisi in costante divenire“.

Fin dal decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6 (Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 5 marzo 2020, n. 13, il legislatore statale si è affidato ad una sequenza normativa e amministrativa che muove dall’introduzione, da parte di atti aventi forza di legge, di misure di quarantena e restrittive, per culminare nel dosaggio di queste ultime, nel tempo e nello spazio, e a seconda dell’andamento della pandemia, da parte di decreti del Presidente del Consiglio dei ministri. L’art. 1 del d.l. n. 33 del 2020 ha poi reputato opportuno attribuire uno spazio di intervento d’urgenza anche ai sindaci (comma 9), e, soprattutto, alle Regioni (comma 16), alle quali, nelle more dell’adozione dei d.P.C.m., compete l’introduzione di «misure derogatorie restrittive rispetto a quelle disposte» dal d.P.C.m., ovvero anche “ampliative”, ma, per queste ultime, d’intesa con il Ministro della salute, e nei soli casi e nelle forme previsti dai decreti del Presidente del Consiglio dei ministri”.

Tale previsione, continua successivamente la Corte, ha lo “scopo di assicurare che, nel tempo necessario ad aggiornare le previsioni statali alla curva epidemiologica, non sorgano vuoti di tutela, quanto a circostanze sopravvenute e non ancora prese in carico dall’amministrazione statale. È il caso, ad esempio, della sospensione delle attività didattiche prescritta con ordinanze regionali, il cui fondamento riposa non su una competenza costituzionalmente tutelata delle autonomie, ma sull’attribuzione loro conferita dall’art. 1, comma 16, del d.l. n. 33 del 2020.

Ciò che la legge statale permette, pertanto, non è una politica regionale autonoma sulla pandemia, quand’anche di carattere più stringente rispetto a quella statale, ma la sola disciplina (restrittiva o ampliativa che sia), che si dovesse imporre per ragioni manifestatesi dopo l’adozione di un d.P.C.m., e prima che sia assunto quello successivo“.

Punto. Non vi sono ulteriori spazi di azione.

Avv. Santi Delia