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Pubblicato in Lavoro

Abuso dei contratti a termine nella P.A.: il danno non va più provato

by on01 Febbraio 2014

Deciso cambio di orientamento della Cassazione ad appena un anno dalla famigerata sentenza n. 10127 del 2012 che sembrava togliere ogni speranza ai precari storici della pubblica amministrazione.

Con la sentenza n. 26951 del 2 dicembre 2013 la Corte di Cassazione adotta un sensibile mutamento di prospettiva nella risoluzione dell’annoso problema del precariato nella pubblica amministrazione

 segnando un deciso cambio di passo rispetto agli ultimi orientamenti che avevano influenzato le posizioni di larga parte della giurisprudenza di merito in molti Tribunali italiani.

Il principio apparentemente semplice ed espresso tra le righe della decisione in commento è in grado di cambiare le sorti almeno economiche di tante istanze risarcitorie rimaste fino ad ora senza alcun riscontro da parte dei Supremi Giudici.

Si ricorderà come negli ultimi due autorevoli arresti sul punto (sent. 392/2012 e sent. 10127/2012) la Corte di Cassazione si fosse espressa in senso fortemente ostativo alla possibilità di riconoscere ai  precari della P.A. il diritto ad ottenere la corresponsione del risarcimento del danno subito per l’illegittima reiterazione di contratti a tempo determinato da parte del datore di lavoro pubblico ai sensi dell’art. 36, comma 5, del D.Lgs. n.165 del 2001.

Nella sentenza n. 392 del 2012, emessa a seguito del ricorso di un impiegato USL che lamentava la reiterazione abusiva di contratti a termine nel corso del suo rapporto di pubblico impiego, la Corte di Cassazione, pur non negando esplicitamente l’illegittimità del comportamento della USL in questione, negava poi il riconoscimento del risarcimento del danno sulla base dell’asserto per cui “il risarcimento dei danni scaturenti dal rapporto lavorativo [...] va provato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento”. Si trattava evidentemente di una “prova impossibile”. Il carattere risarcitorio conferito alla stregua degli ordinari criteri civilistici alla sanzione di cui all’art. 36, comma 5 del T.U. in materia di pubblico impiego avrebbe determinato la necessità di provare “le occasioni di lavoro che si sarebbero potute verificare in futuro” e che sarebbero state perse in ragione della reiterata ed illegittima stipula di contratti di lavoro a tempo determinato.

La Cassazione affermava pertanto la conformitàdel predetto art. 36 alla direttiva CE  n.70 del 1999 e “salvava” la norma che prescrive per le P.A. il divieto di conversione in contratto a tempo indeterminato dei rapporti di lavoro a termine “abusivi” proprio in ragione della previsione nella medesima disposizione di un diritto del lavoratore al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative. Tuttavia i Supremi Giudici con un’interpretazione così restrittiva dei profili risarcitori legati alla sanzione di cui all’art. 36 mostravano di aderire a quella parte di giurisprudenza di merito che rendeva sostanzialmente impossibile il riconoscimento di un qualsivoglia ristoro economico nei confronti dei lavoratori precari del pubblico impiego danneggiati dall’illegittimo reiterarsi di contratti a termine.

Ora il cambio di prospettiva. In un caso analogo a quello sottoposto nella sentenza n. 392/2012, la Corte di Cassazione muta orientamento e con la sentenza n. 26951 del 2 dicembre 2013 conferma la decisione della Corte di Appello di Perugia con cui era stato liquidato un risarcimento pari a 10 mensilità in favore di un lavoratore che era stato alle dipendenze di una USL stipulando in successione ben quattro contratti a termine nel corso di un anno.

Nel motivare tale decisione gli Ermellini si sono richiamati ad una sentenza della Corte di Giustizia europea del 7 settembre 2006, secondo cui “la direttiva n. 70 del 1999 non osta ad una normativa nazionale che escluda la conversione in contratto a tempo indeterminato nel settore del pubblico impiego, purchè tale normativa contenga un’altra misura effettiva destinata ad evitare e, se del caso, a sanzionare un utilizzo abusivo ad una successione di contratti a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante in tale settore”.

L’articolo richiamato è ancora una volta il n. 36 del D.lgs. 165/2001 che prescrive il divieto di conversione in contratto a tempo indeterminato nel settore del pubblico impiego. In quest’occasione però la Cassazione sembra connotarlo di effettività nella parte in cui prescrive l’alternativo rimedio del risarcimento del danno in caso di utilizzo abusivo dei contratti a termine.

Alle doglianze avanzate dalla USL ricorrente in merito al criterio di riconoscimento del pregiudizio subito dal dipendente ed individuato dalla Corte territoriale nel danno “per il non aver lavorato per il tempo successivo alla scadenza del rapporto di lavoro a termine”, la Cassazione risponde affermando che l’art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001introduce un proprio e specifico regime sanzionatorio con una accentuata responsabilizzazione del dirigente pubblico e il riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni subiti dal lavoratore”. Legittima è pertanto la decisione della Corte di Appello di Perugia che senza richiedere la prova del danno “in forza di tale disposizione ha attribuito alla lavoratrice il risarcimento del danno nella misura di dieci mensilità di retribuzione, ritenendo che tale misura fosse adeguata a compensare la ricorrente dell’ingiustizia patita”.

E’ evidente pertanto come in questo caso la Corte di Cassazione abbia adottato un criterio risarcitorio del tutto slegato dalla prova del danno, lontano dagli ordinari criteri civilistici ma del tutto aderente a quel carattere “sanzionatorio” richiesto dalla clausola 5 dell’Accordo Quadro CES, UNICE e CEEP allegato alla Direttiva 70/1999 a cui i legislatori nazionali devono conformarsi nella disciplina della tutela dagli abusi dei contratti di lavoro a termine nel settore pubblico come in quello privato.

Si tratta dunque di una decisione sicuramente più confacente agli obiettivi enunciati dalla direttiva 1999/70 in materia di tutela dei lavoratori a tempo determinato ma che probabilmente risente anche del mutamento di clima in atto a seguito della chiusura della procedura di infrazione aperta dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia per l’utilizzo abusivo del personale precario in tutto il pubblico impiego.

In definitiva, la sentenza in questione registra sicuramente un passo importante che necessiterà tuttavia di ulteriori sviluppi anche alla luce delle posizioni prese nei giorni immediatamente seguenti alla pronuncia in commento dalla Corte di Giustizia Europea nell’ordinanza “Papalia” (C-50/13) e nella sentenza “Carratù” (C-361/12). Si tratta di pronunce connotate da una forte valenza interpretativa delle clausole n. 4 e 5 della direttiva n. 70 del 1999 e, dunque, tali da cambiare radicalmente il quadro applicativo delle tutele finora scarsamente riconosciute ai precari italiani delle pubbliche amministrazioni.         

Ultima modifica il 01 Febbraio 2014