Nel corso del tempo, con il progressivo allargamento dello spazio Schengen, si è così determinata una implementazione della cooperazione tra gli Stati membri sul fronte amministrativo-poliziesco, lasciando sullo sfondo la cooperazione in materia di tutela dei diritti fondamentali degli stranieri.
Tutto ciò è avvenuto in contrasto con il principio più volte affermato dalla Corte costituzionale – vedi, per tutte: sentenza n. 148 del 2008 – secondo cui la disciplina della condizione degli stranieri migranti si caratterizza per la coesistenza di ragioni di ordine pubblico e controllo delle frontiere con ragioni di tutela di diritti fondamentali, che vanno tra loro bilanciate e considerate in modo non separato, visto che le politiche riguardanti il primo aspetto hanno inevitabili ripercussioni su quelle che concernono il secondo.
E una evidente dimostrazione di tale impostazione “sbilanciata” è data dalla tolleranza dimostrata dalla UE rispetto all’adozione, da parte dei diversi Stati UE di possibile approdo dei migranti (come la Grecia, la Spagna, Malta, l’Italia), di sistemi di “allontanamento” non conformi al diritto internazionale né ai valori comuni della Unione, sanciti dall’art. 2 del TUE e sui quali si basa la stessa Unione, rappresentati dal rispetto, parte degli Stati membri dell’UE, “della dignità umana e dei diritti umani, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e lo Stato di diritto”.
Il rispetto di questi principi è sancito come condizione di appartenenza alla UE e l’art. 7 del TUE e l’art. 354 del TFUE forniscono alle istituzioni UE i mezzi per garantire tale rispetto. L’art. 7 TUE prevede, in particolare, sia un meccanismo di prevenzione, in caso di rischio di una violazione di questi valori comuni da parte di uno Stato membro sia un meccanismo di sanzione in caso di accertata violazione di questi valori. Tuttavia, come è stato di recente sottolineato anche da un gruppo di studiosi del Max Planck Institute for Comparative Public Lawand International Law di Heidelberg, i meccanismi previsti dal suddetto art. 7 TUE non hanno funzionato.
Questo spiega anche la tolleranza dimostrata dalle istituzioni UE rispetto alle anzidette prassi violative dei diritti fondamentali dei migranti, ivi comprese:
1) la pratica delle “riammissioni” dai porti italiani del mare Adriatico verso la Grecia, che è tuttora molto utilizzata e che è governata da un accordo bilaterale stipulato Italia-Grecia del 30 aprile 1999 che è stato siglato fuori dal contesto del Codice Frontiere Schengen e consente a ciascuno dei due Stati contraenti di respingere immediatamente all’arrivo sul proprio territorio il migrante verso l’altro Stato, senza alcun provvedimento formale (che potrebbe essere impugnato), ma soltanto in base ad un semplice comportamento materiale di allontanamento (che non lascia traccia documentale) messo in atto dalla Polizia di frontiera;
2) la prassi dei respingimenti collettivi in mare verso la Libia seguita dall’Italia, a partire dal 6 maggio 2009, quando è entrato in vigore il Trattato di amicizia concluso con la Libia.
Sappiamo, infatti, che le riammissioni non sono state mai censurate né dalla Corte di Strasburgo, nonostante la proposizione di alcuni ricorsi al riguardo, né in sede UE benché varie associazioni umanitarie ne abbiano denunciato l’irregolarità.
D’altra parte, l’abbandono della prassi dei respingimenti in mare è stato determinato non da provvedimenti UE, ma dalla famosa sentenza della Corte di Strasburgo del 23 febbraio 2012 resa dalla Grande Camera, nel caso Hirsi e altri c. Italia, relativa al caso, molto conosciuto, della intercettazione, avvenuta nel maggio 2009, di barconi partiti dalla Libia da parte di navi militari italiane in acque maltesi. Il caso era stato rimesso alla Grande Camera direttamente dalla Seconda Sezione della Corte europea, in ragione della delicatezza e complessità della materia, relativa ai limiti di difesa delle frontiere meridionali del Mediterraneo e la Grande Camera ha condannato il nostro Paese per i respingimenti in mare verso la Libia di stranieri provenienti dalla Somalia e dalla Eritrea facendo riferimento sia all’art. 3 della Cedu (che vieta la tortura e le pene o i trattamenti inumani o degradanti), sia — per la seconda volta (dopo la sentenza del 5 febbraio 2002, nel caso Čonka e altri c/ Belgio) — all’art. 4 del Protocollo n. 4 che sancisce il divieto delle espulsioni collettive di stranieri.
Certo la conseguente radicale modifica delle prassi in materia di immigrazione registratasi nel nostro Paese non può non essere salutata con favore, anche se per un reale adeguamento del nostro sistema di accoglienza dei migranti al rispetto dei diritti fondamentali degli interessati vi è ancora molto da fare, non solo per quel che riguarda la pratica delle riammissioni, ma anche per molti altri aspetti, partire dalla previsione dello specifico reato di tortura – per sanzionare le violenze che i migranti possono subire all’arrivo o nei Centri di trattenimento e che, allo stato, restano impunite − come ci viene richiesto da anni dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti−CPT del Consiglio d’Europa, nei rapporti pubblicati periodicamente sul trattamento previsto nel nostro Paese nei luoghi pubblici in cui le persone possono essere astrette: carceri, centri di detenzione minorile, commissariati di polizia, centri di ritenzione per immigrati irregolari, istituti psichiatrici, strutture e istituzioni di ricovero a carattere sociale, ecc.
E come adesso sembra non più rinviabile dopo due ulteriori − rispetto al citato caso Hirsi – condanne del nostro Paese per violazione dell’art. 3 della CEDU (sul divieto di trattamenti inumani e degradanti) ad opera della Corte di Strasburgo, con le sentenze del 24 giugno 2014 sul caso Alberti c/Italia e dell’1 luglio 2014 sul caso Saba c/Italia.
E poi ci sono le condizioni di vita inadeguate che offriamo a chi si trova nei Centri e che, da tempo, sono all’attenzione del CPT, senza che si registrino sostanziali modifiche, per non parlare della spinosa questione dei minori non accompagnati (è di questi giorni la paventata chiusura di un centro di Messina per mancanza di fondi).
Certo queste sono tutte questioni aperte, punti deboli del nostro sistema nazionale per i quali veniamo spesso rimproverati dagli altri Stati europei, che ricevono molte più domande di asilo di noi.
Ma il fatto che noi dobbiamo dotarci di un sistema di accoglienza dignitoso, non esclude che per fare fronte all’emergenza sbarchi non possiamo più essere lasciati soli.