ed è entrata in vigore il 14 giugno 2015.
Sulla scia della L. 190/2012, la ratio della normativa è quella di rafforzare la lotta alla corruzione prevedendo, in primis, un aumento della cornice edittale per i reati di peculato, corruzione, induzione indebita a dare o ricevere utilità, nonché per il delitto di associazione di tipo mafioso, ed introducendo, in secondo luogo, sconti di pena nelle ipotesi di collaborazione.
Per quanto riguarda, nello specifico, l’inasprimento delle pene previsto dalla nuova disciplina, il quadro che si palesa è il seguente: per il reato di concussione per induzione ex art. 319 quater, la pena minima è aumentata da tre a sei anni mentre la pena massima ha subito un aumento da otto a dieci anni; la pena massima è aumentata da dieci anni a dieci anni e sei mesi per il reato di peculato; la pena è ora di un minimo di sei anni e di un massimo di dodici anni per la corruzione in atti giudiziari e di un minimo di sei anni fino a un massimo di dieci anni per il reato di corruzione propria; per quanto concerne le pene accessorie, l’interdizione dall’esercizio di una professione è di un minimo di tre mesi fino ad un massimo di tre anni per il reo che venga condannato; per il reato di abuso di ufficio, infine, la pena è rimasta immutata (da uno a quattro anni), e pertanto rimane applicabile a questa fattispecie delittuosa il d.lgs. 16 marzo 2015 n. 28, potendo perciò rientrare nel novero dei reati di particolare tenuità. Per il reato di concussione, la L. 69/2015 ha esteso la punibilità anche all’incaricato di pubblico servizio ex art. 358 c.p., e cioè a quei soggetti che, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio ossia un’attività disciplinata nelle stesso forme della pubblica funzione, ma con la mancanza dei poteri tipici di quest’ultima e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale. Si tratta dunque di un ripensamento da parte del legislatore, che con la L. Severino del 2012 aveva (si potrebbe osare dire ingiustificatamente) espunto tale figura dal novero di soggetti perseguibili (come invece previsto dalla previgente L. 86/90). Per quanto concerne le associazioni di tipo mafioso, anche straniere, l’art. 5 della L. 69/2015 prevede una serie di modificazioni all’art. 416-bis c.p. Nell’ipotesi del primo comma dell’articolo, e dunque per chiunque faccia parte “di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone” la pena prevista va adesso dai dieci ai quindici anni (anziché da sette a dodici anni); per quanto riguarda la punibilità di “coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione” ex art. 416-bis, comma II, c.p., la cornice edittale è da dodici a diciotto anni (invece che da nove a quattordici anni); infine, nel caso in cui l’associazione sia “armata”, se la condotta si ascrive nell’ambito del primo comma dell’art. 416 bis la pena andrà dai dodici ai venti anni (anziché dai nove ai quindici anni), mentre se si rientra nell’ambito del secondo comma la pena andrà dai quindici ai ventisei anni (anziché dai dodici ai ventiquattro anni).
Anche da un punto di vista prettamente processuale, varie sono le novità apportate dalla riforma. Unitamente alla sentenza di condanna è adesso ordinato il pagamento di una somma di denaro pari all’ammontare di quanto indebitamente ricevuto dal pubblico agente, a titolo di “riparazione pecuniaria” ad appannaggio della pubblica amministrazione a cui il pubblico ufficiale fa parte; nel caso dell’art. 319-ter (corruzione in atti giudiziari) la riparazione pecuniaria sarà ovviamente in favore dell’amministrazione della giustizia; la sospensione condizionale della pena, nel caso di condanna per i delitti di corruzione per l’esercizio della funzione, di concussione, di corruzione in atti giudiziari, di peculato e di induzione indebita ex art. 319 quater, sarà adesso assoggettata alla previa e completa restituzione di ciò che costituisce il profitto del reato; allo stesso modo per i reati di concussione, per i medesimi reati, si potrà avvantaggiarsi del patteggiamento della pena unicamente nel caso in cui verrà restituito il prezzo o il profitto del reato.
E’ stato poi previsto un aumento della metà del tempo di prescrizione per i reati di corruzione.
Da segnalare è inoltre la modifica operata all’art. 129, comma 3, disp. Att. Cpp a tenore del quale “quando esercita l’azione penale per i delitti di cui agli articoli 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, 319 quater, 320, 321, 322, 322-bis, 346 bis, 353 e 353 bis c.p., il pubblico ministero informa il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, dando notizia dell’imputazione”. Sono stati pertanto incrementati i poteri di vigilanza dell’Anac, con l’ulteriore previsione, all’art. 7, che nelle controversie in tema di silenzio assenso per la certificazione di inizio attività, il giudice amministrativo informi l’Authority nel caso di condotte che contrastino “con le regole della trasparenza”.
Per quanto riguarda, nello specifico, la nuova “attenuante” della collaborazione, che tra tutte le novità introdotte è di certo quella di maggior pregio (andando ad incidere sulla piaga dell’omertà che in tali tipologie di reato è elemento caratterizzante) è stata apportata una modifica all’ art. 323-bis c.p. con l’aggiunta del seguente comma: “Per i delitti previsti dagli articoli 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322 e 322-bis, per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite, la pena è diminuita da un terzo a due terzi”. La seguente disposizione attenuante, giova ricordarlo, ha efficacia retroattiva (trattandosi di norma di natura sostanziale) ed è pertanto auspicabile vi siano collaborazioni nei procedimenti già in corso al fine di beneficiare degli sconti di pena ivi previsti.
Tale disposizione è stata tuttavia salutata dagli interpreti con non troppo fervore, in quanto la si taccia di essere sulla falsariga di norme già avvicendatesi nel nostro panorama legislativo in materia di stupefacenti o di terrorismo, non avendo dimostrato il legislatore uno sforzo realmente innovativo e concreto nella lotta all’omertà caratterizzante le fattispecie corruttive. Al fine di rendere effettivamente operativa l’attenuante de quo, sarebbe stato opportuno escludere i corruttori dagli aumenti di pena, limitandone la portata unicamente ai soggetti corrotti (così come previsto dall’art. 319-quater), onde evitare che lo sconto di pena previsto dall’art. 323-bis sia “vanificato” dall’aumento delle soglie edittali di cui sopra. Allo stesso modo è stata ritenuta non particolarmente dissuasiva la subordinazione della sospensione condizionale della pena al pagamento di una somma equivalente al profitto del reato “ovvero all’ammontare di quanto indebitamente percepito dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio” (art. 2), in quanto il soggetto che scelga di collaborare al perseguimento del reato ha l’onere di provare di non aver percepito interamente il profitto del reato, con il rischio, conseguentemente, di disincentivare una tale collaborazione.
Altra novità di profondo rilievo è rappresentata dalla reintroduzione del c.d. falso in bilancio, ai sensi dei nuovi artt. 2621 ss c.c modificativi della disciplina concernente i reati di false comunicazioni sociali
In origine, le “False comunicazioni sociali” erano disciplinate dall’art. 2621 del c.c. e qualificate come reato di pericolo, punito con la reclusione da uno a cinque anni (nonché la multa da due a venti milioni di lire), fino ad essere poi depenalizzato dalla L.61/2002 (che ne mantenne tendenzialmente intatta la struttura)
Con la riforma del 2015 il legislatore resosi conto della inadeguatezza della normativa previgente, nell’ottica di rafforzare concretamente la lotta alla corruzione, ha inteso ridisciplinare anche quei reati che alle fattispecie corruttive sono funzionalmente e teleologicamente correlati, tra cui figura, appunto, il falso in bilancio.
La ratio della reintroduzione del falso in bilancio ad opera della L. 69/2015 è perciò quella di garantire la trasparenza e la libera concorrenza. Sono stati riformulati l’art. 2621 c.c. “False comunicazioni sociali” e l’art. 2622 c.c. “False comunicazioni sociali in danno della società, dei soci o dei creditori”, completando la fattispecie con l’introduzione dell’art. 2621 bis “Fatti di lieve entità” e 2621-ter “Non punibilità per particolare tenuità”. Dai nuovi reati sono state cancellate le soglie percentuali previste dalla previgente normativa, sono state inasprite le pene, e l’apparato sanzionatorio segue un regime differente in base alla tipologia di società.
Ai sensi dell’art. 2621 c.c., vengono puniti con la reclusione da uno a cinque anni gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci ed i liquidatori, i quali, al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico previste dalla legge, espongono consapevolmente “fatti materiali rilevanti” non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti.
Per poter essere punite, tali falsità ed omissioni devono essere concretamente idonee ad indurre altri in errore. Tale fattispecie si caratterizza dunque come reato di pericolo concreto, essendo state espunte quelle condotte che non si materializzino in una offesa effettiva al bene giuridico tutelato.
Di particolare rilievo il riferimento ai “fatti materiali rilevanti” anziché alle semplici “informazioni” come nella pregressa normativa, da cui si ricava la volontà del legislatore di non considerare come penalmente rilevanti le attività consistenti unicamente in una “mera valutazione”.
La vecchia norma, infatti, sanzionava amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori che esponevano fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazioni ovvero omettevano informazioni la cui comunicazione era imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo di appartenenza.
In una recentissima sentenza la Corte di Cassazione (sent. 33774/2015) ha ridimensionato la disciplina del falso in bilancio anche per quanto concerne le c.d. valutazioni. La Suprema Corte ha difatti statuito che i “falsi basati su di una valutazione di un dato numerico a una realtà sottostante”, i c.d. falsi estimativi, siano stati depenalizzati dalla nuova disciplina. Per i giudici di legittimità appare chiara l’intenzionalità del legislatore di non attribuire più alcuna rilevanza penale alle stime che caratterizzano alcune delle voci di bilancio.
L’art. 2621 bis prevede invece la riduzione della pena nel caso in cui gli illeciti siano di lieve entità, tenendo conto della natura, delle dimensioni della società e delle modalità e degli effetti della condotta e, nel caso in cui si tratti di società non soggette a fallimento, la procedibilità è a querela di parte: con l’art. 2621 ter il legislatore ha inteso coordinare la fattispecie con la non punibilità per particolare tenuità ex art. 131 bis c.p., prevedendo che tale qualificazione dovrà essere oggetto di accertamento da parte del giudice chiamato a valutare in modo prevalente l’entità del danno cagionato alla società, ai soci o ai creditori sociali che è conseguito alla condotta ex art. 2621 e 2621 bis c.c.
E’ stato poi introdotta una autonoma fattispecie delittuosa, disciplinata dal nuovo art. 2622 c.c., che punisce con la reclusione da tre ad otto anni le falsi comunicazioni sociali afferenti le società quotate e le altre società ad esse equiparate.
Per quanto concerne il tempus commissi delicti, i reati ex art. 2621 e 2622 c.c. si considerano commessi nel momento in cui avviene la comunicazione delle false od omesse informazioni ai soci o al pubblico (ex multis Marinucci – Dolcini; seppur non manca chi ritiene che il delitto si consumi al momento in cui venga depositato il bilancio presso la sede della società, ex multis Meoli, Rebus decorrenza per il falso in bilancio, in Eutekneinfo, 27 maggio 2015)
Giova ricordare, in generale, che le nuove disposizioni della L. Anticorruzione e le conseguenti pene più incisive saranno applicabili unicamente ai fatti commessi successivamente all’entrata in vigore della stessa e più precisamente per quelli commessi a partire dallo scorso 14 giugno 2015.
L’iter di approvazione della riforma è stato particolarmente lungo e complesso nonché particolarmente sentito soprattutto in seguito agli ultimi recenti scandali (Expo, Mose, Mafia Capitale). La nuova legge è stata salutata (a caldo) con particolare enfasi e clamore, pur trattandosi più che altro di un “tassello aggiuntivo” a quella che, ad oggi, rappresenta la vera e propria L. Anticorruzione, la. 190/2012. I primi dubbi concernono la possibilità delle novità introdotte dalla L. 60/2015 di essere effettivamente risolutive della lotta alla corruzione. Inasprire le pene, si sa, è molte volte una scelta legislativa solo apparentemente più incisiva (di certo rappresenta la strada più ovvia e più semplice), ma nell’ambito della repressione della corruzione (o white collar crimes, a dir si voglia) , dove per antonomasia i corrotti ed i corruttori agiscono in spregio di eventuali aumenti di pena nella convinzione (e tracotanza) di poterne in ogni caso uscire impuniti, non è senz’altro una scelta di particolare effetto.
Decisamente positiva, incisiva e concreta, seppur con le criticità sopra evidenziate, è la previsione dell’attenuante della collaborazione nonché dell’estensione all’incaricato di pubblico servizio del reato di concussione, ma l’impressione (a freddo) che la nuova riforma nel complesso suscita è che il legislatore si sia posto con un approccio poco “moderno” alla rivisitazione della materia, non tenendo conto di come l’esperienza ci abbia più e più volte dimostrato che un regime sanzionatorio di grande rigore non è quasi mai effettivamente in grado di contenere, arginare e, soprattutto, prevenire il fenomeno corruttivo.