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Risponde di omicidio colposo l’addetto del 118 che sottovaluta la gravità del caso e invia in ritardo l’ambulanza per Cassazione n. 40036 del 27 settembre 2016.

by Avv. Alberto Valerio Lori on21 Dicembre 2016

Gli Ermellini della Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 40036 del 27 settembre 2016, hanno affermato che  

si rendeva  responsabile  di omicidio colposo l´operatore del 118 che, trascurando il livello di  gravità del caso per cui era richiesto soccorso, non mandava  prontamente l´ambulanza,  e quando, a seguito di  una seconda chiamata, finalmente si attivava per  inviarla, in essa  non vi era  alcuna figura di medico rianimatore a bordo. A causa del mancato e tempestivo intervento il paziente perdeva  la vita in seguito  a  una grave crisi epilettica.

La Corte Territoriale aveva precedentemente riconosciuto in capo all’imputato la posizione di garanzia  quale addetto al 118  e ravvisato nei suoi confronti l’ imputazione causale  del  delitto commissivo  mediante omissione. In particolare rimproverava all’operatore una  condotta  connotata da grave negligenza poiché , sulla base della registrazioni telefoniche  acquisite, lo stesso,  trasgredendo i  protocolli cui deve attenersi  il servizio di 118, aveva  innanzitutto  sostenuto che non ci fosse un’autoambulanza disponibile nelle vicinanze del luogo di intervento, poi  ometteva di   procedere  a un triage per accertare  l’ urgenza della situazione medica,  senza verificare lo stato generale e le  funzioni  vitali del  giovane paziente ( respiro, coscienza, circolazione).

L’imputato, in particolare, non aveva svolto alcun approfondimento circa i pregressi stati morbosi e la durata della crisi ( che già era in atto), terminando la prima chiamata – quella che poteva essere decisiva per salvare la vita al paziente – in modo evasivo, minimizzando il rischio con una prognosi generica relativa ad una possibile reversibilità della crisi e senza sollecitare una concreta risoluzione della vicenda nel caso l’attacco epilettico non si fosse placato.

Tali omissioni  non avevano consentito all'addetto di valutare  adeguatamente l’insidiosità del quadro clinico e il  possibile  degenerare  della crisi epilettica in corso, rimettendo ad un casuale  interlocutore che si era inserito nella conversazione (un vicino di casa) la scelta di attendere  l’ambulanza o di accompagnare all'ospedale il paziente con mezzi propri; successivamente, a seguito della seconda richiesta di intervento, decisosi finalmente  a  inviare un'autoambulanza, non provvedeva a far sì che la stessa  fosse dotata di  strumenti di rianimazione.

La difesa dell’imputato aveva sostanzialmente obiettato alla ricostruzione accolta nella sentenza di condanna  che  non sussisteva certezza o probabilità logica che un intervento anticipato di venti minuti, ovvero un intervento con medico rianimatore al seguito, avrebbero salvato la vita al paziente in presenza del comportamento dovuto.  Inoltre, il ricorrente aveva impugnato la statuizione del giudice di secondo grado di  escludere  efficacia interruttiva o comunque incidenza causale sul decesso  del paziente a un suo  difetto cardiaco e alla circostanza che lo stesso fosse  assuntore di cannabis, avendo, però, d’altro canto  riconosciuto che tali fattori potevano avere anticipato l’ insorgenza del male epilettico: ad avviso della difesa del ricorrente l’emergere di un  dubbio ragionevole sulla esistenza di una singola ipotesi eziologica alternativa  avrebbe dovuto escludere la sussistenza  del nesso causale.

Il giudice di appello aveva però accertato che il giovane  era stato rinvenuto  in terra, colpito da crisi epilettica in orario compreso tra le 6.25 e le 6.30, a quel punto era partita la chiamata al 118, che era  da riferirsi alle h.6,47, nella quale la  madre del paziente, rappresentava  lo stato in cui versava il figlio e l'urgenza dell'intervento ("il ragazzo si sente male, c'è venuta una crisi di epilessia...il ragazzo è qui per terra che si sente male").    La situazione si era aggravata nei minuti successivi. Alle h.7,26, nel corso di un’ulteriore chiamata la madre affermava ("il ragazzo ora è incosciente"). La Corte Territoriale ipotizzava quindi, con ragionevoli e concludenti argomenti, che un  tempestivo intervento di una delle due ambulanze pure disponibili, sebbene fuori zona, pronosticato prima delle h. 7,10 (circa venti minuti dopo la prima chiamata), avrebbe potuto  risultare  salvifico.

I Giudici della Cassazione hanno pertanto rigettato il ricorso proposto dall’imputato, in quanto la Corte Territoriale, con sentenza esente da vizi logico giuridici,  ha ritenuto la  sussistenza del nesso causale tra la condotta negligente dell´imputato e il decesso  del paziente. La Suprema Corte, con riguardo al profilo della colpa, ha valorizzato il principio sancito dalla pronuncia delle Sezioni Unite (SS. UU. 24/4/14 n. 38343), secondo cui occorre verificare di volta in volta se l´evento costituisca la concretizzazione del rischio della inosservanza della regola cautelare. Nella fattispecie i giudici di legittimità hanno avuto modo di accertare come l´evento sia stato la realizzazione del pericolo in considerazione del quale, la condotta dell´agente è stato qualificata contrario alla diligenza.

La rappresentabilità e prevedibilità dell’evento in specie non poteva che consistere nell’assunzione di un comportamento diligente e rispettoso, improntato all’osservanza dei compiti affidati all’operatore del 118. Il venir meno di un corretto esercizio di tale ruolo, per via della leggerezza e superficialità dimostrata, ha costituito anello essenziale di quella catena causale che ha portato alla morte del paziente. Detto in altri termini, nell’ambito di un giudizio contro fattuale, ovvero volto a valutare l’incidenza causale di un’azione doverosa omessa, l’acquisizione di una serie di cognizioni e la realizzazione delle condotte che l’imputato avrebbe dovuto tenere quale conseguenza di tali cognizioni, avrebbe  appagato, sebbene in via mediata,  gli obblighi cautelari  predisposti a prevenire  l’evento finale poi verificatosi. In tal modo l’operatore, possedendo una base conoscitiva  chiara ed allarmante, avrebbe potuto, infatti, prevedere il possibile aggravamento della patologia oggetto di intervento e  contribuire, attraverso il rispetto dei protocolli del 118,  ad  impedire l’esito infausto.  Trova accoglimento pertanto, ancora una volta, “il principio della concretizzazione del rischio” in materia colposa: esso afferma che, affinché la violazione della regola cautelare di condotta che si contesta al soggetto agente e che qualifica il comportamento posto in essere come colposo può essere considerato causa dell’evento verificatosi, è infatti necessaria la c.d. concretizzazione del rischio.

La responsabilità a titolo di colpa, in tale ottica, deve essere  limitata a quei soli eventi lesivi del bene giuridico protetto che la regola cautelare, specificamente violata, mira  ad evitare e che rientrano, pertanto, nell’ambito dello scopo di protezione della norma.  A parere di chi scrive,  il criterio citato  merita un’ applicazione  assolutamente rigorosa al fine di circoscrivere l’area della responsabilità colposa ed emanciparla  dal versari in re illicita;  un profilo colposo  non si può estendere a tutti gli eventi che siano derivati dalla condotta inosservante  della norma, da considerarsi estranei alla funzione precauzionale della norma violata,  ma deve essere necessariamente  limitata ai risultati specifici  che la norma stessa mirava  a prevenire. Occorre pertanto sempre verificare se l’esecuzione del comportamento diligente non si sarebbe rivelato, ad un accertamento a posteriori, insufficiente a contrastare il tipo di pericoli alla cui prevenzione era preposta la regola cautelare, risultando così neutrale rispetto alla sua causazione.

Il giudizio ai fini della configurazione della colpa va sempre compiuto alla stregua dei canoni di prevedibilità e prevenibilità. Prima s’individua una norma specifica, avente natura cautelare, posta a presidio della verificazione di un altrettanto specifico evento, sulla base delle conoscenze che all'epoca della creazione della regola consentivano di porre la relazione causale tra condotte e risultati temuti, quindi s’ identificano le attività finalizzate a scongiurare o attenuare il rischio.

Nel caso in esame appare del tutto condivisibile la decisione della Corte di Cassazione, poiché sulla scorta della delicata posizione di protezione del bene-vita che incombeva sull’operatore del 118, quest’ultimo avrebbe dovuto sollecitare immediatamente al richiedente tutte le informazioni possibili sui parametri vitali del paziente. Posto che la regola cautelare venuta in rilievo si configurava senz’altro come il dovere di attivarsi immediatamente per inviare un’ambulanza che accorresse tempestivamente, la grave negligenza consisteva proprio nell’aver sottovalutato il rischio insito nella richiesta di intervento, salvo poi ripensarci e  ritardare in modo notevole la presa in carico del paziente. Corretta è pertanto la scelta di riconoscere all’addetto del 118 un   contegno omissivo idoneo a determinare un contributo causale alla produzione dell’evento-morte. 

Ultima modifica il 29 Dicembre 2016