Diverse sono ancora oggi le problematiche che la disciplina della procreazione assistita solleva. Sintomo di un intervento normativo a tratti volutamente incompleto e che lascia ampi spazi al dibattito di coscienze al confine tra etica, scienza e diritto.
A distanza di dieci anni da un voto definito da tanti addetti ai lavori “in libertà di coscienza” ci troviamo oggi ad affrontare alcuni dei profili più controversi che hanno di recente interessato la stessa Corte Costituzionale con l’Avvocato Fabio Rispoli, Presidente dell’Associazione "La Rinascita dei Valori", Specializzato in Diritto Civile con indirizzo della Persona e Famiglia.
In cosa consiste la Procreazione Medicalmente Assistita (P.M.A.) e quali sono in particolare le tecniche utilizzate per attuarla?
Scientificamente la procreazione medicalmente assistita (P.M.A.) rappresenta la branca specialistica della biomedicina e delle biotecnologie applicate alla riproduzione umana ed animale. Essa ha trovato una specifica regolamentazione in Italia da parte della L. n. 40/2004, la quale prescrive espressamente la possibilità di ricorrere alla procreazione medicalmente assistita solo laddove non sia possibile far impiego di altri metodi efficaci per rimuovere i problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o infertilità umana.
Nel suo aspetto “operativo” la Procreazione Medicalmente Assistita si articola attraverso due principali tecniche di intervento: la Fecondazione in Vitro e la Fecondazione assistita in vivo. Si tratta di tecniche totalmente diverse con riguardo al luogo dell’inizio della formazione delle prime cellule embrionali. Infatti, mentre nella prima la fecondazione dei gameti viene realizzata appunto in vitro, ovvero in particolari provette all’interno del laboratorio di riproduzione, nella seconda il processo di fecondazione, pur assistita medicalmente, avviene nell’utero della donna.
Le fondamenta della l. 40/2004 sono state gradatamente demolite dalle decisioni della Corte Costituzionale e dagli interventi giurisprudenziali ad esse susseguenti. Può spiegarci la ragione?
Il testo normativo che si occupa di disciplinare la materia è stato oggetto didiversi interventi ad opera della Corte Costituzionale, dei Giudici di merito ed ultimamente anche della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Questi arresti giurisprudenziali hanno certamente portato ad un’apertura interpretativa della normativa esistente in considerazione delle nuove frontiere scientifiche. Ma andiamo con ordine.
Secondo la normativa richiamata, e precisamente all’art 4, il ricorso alla PMA è consentito solo “qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità”; inoltre, sono vietate la clonazione umana e la fecondazione eterologa, cioè con un donatore esterno alla coppia. La stessa normativa vieta, inoltre, qualsiasi sperimentazione sull’embrione, nonché “qualsiasi forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti”. In relazione a quest’ultimo punto ruota la polemica sulla cd. diagnosi genetica pre-impianto. Il divieto di una possibilità del genere ha infatti suscitato e continua a suscitare forti motivi di perplessità in ragione della sua estensione anche alle coppie che hanno motivi concreti di temere per eventuali tare genetiche ereditarie.
Un acceso dibattito è poi sorto intorno a quella norma che disciplinava la produzione di embrioni in funzione di“un unico e contemporaneo impianto, e comunque, in numero non superiore a tre” (art. 14, co. 2, l. 40/2004). In sostanza, prima dell’intervento della Corte Costituzionale si potevano produrre un massimo di tre embrioni da impiantare tutti insieme. Un’operazione del genere, ritenuta a bassa probabilità di riuscita soprattutto nei casi di donne non giovani per l’esiguo numero di embrioni autorizzato all’impianto, produceva l’effetto paradossale di aumentare notevolmente il rischio di parti trigemellari nelle ipotesi in cui l’impianto avesse avuto successo.
In relazione a questa problematica è opportuno evidenziare che la legge n. 40/2004 vietava la crioconservazione degli embrioni limitandola ai soli casi di gravi e temporanei motivi di salute della madre. Solo in tali ipotesi infatti l’embrione poteva essere crioconservato nei tempi comunque funzionali al suo trasferimento “da realizzare non appena possibile”.
Queste ultime norme, come appena accennato, sono state però dichiarate illegittime dai Giudici costituzionali con la sentenza n. 151 del 2009. La Corte infatti, partendo dal presupposto per cui il principio costituzionale di uguaglianza debba ritenersi violato anche in tutti quei casi in cui posizioni soggettive del tutto dissimili siano trattate in maniera identica, ha sancito l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dei commi 2 e 3 dell’art. 14 della L. 40/2004 nella parte in cui estendeva a qualunque fattispecie il limite dell’impianto di tre embrioni, limitando di conseguenza la crioconservazione ai soli casi di “grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione”.
Il Giudice costituzionale ha infatti ritenuto contraria al principio di ragionevolezzala mancata previsione legislativa della possibilità di consentire al medico, in quanto depositario di un sapere tecnico suscettibile di un continuo sviluppo nel tempo, l’accertamento delle molte variabili che segnano ed accompagnano il procedimento della procreazione assistita, quali ad esempio la salute e l'età della donna interessata.
La Corte nell’ambito della sua decisione ha dato, a mio avviso, il giusto rilievo alla regola più volte ribadita dalla stessa giurisprudenza costituzionale per cui la discrezionalità legislativa in materia di pratica terapeutica deve essere bilanciata dal necessario spazio da lasciare all’autonomia e alla responsabilità del medico che, con il consenso del paziente, è chiamato ad effettuare le più opportune scelte professionali (sent. Corte cost. n. 338 del 2003 e n. 282 del 2002)
L'intervento della Corte ha mantenuto così salvo il principio secondo cui le tecniche di produzione non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario secondo accertamenti demandati nella fattispecie concreta al medico, ma ha escluso la previsione dell'obbligo di un unico e contemporaneo impianto e del numero massimo di embrioni da impiantare, con ciò eliminando sia la irragionevolezza di un trattamento identico di fattispecie diverse, sia la necessità per la donna di sottoporsi eventualmente ad altra stimolazione ovarica, con possibile lesione del suo diritto alla salute.
Le decisioni della Corte Costituzionale hanno fatto quindi da apripista ad una serie di interventi giurisprudenziali succedutesi a poca distanza di tempo l’uno dall’altro e che hanno man mano demolito le fondamenta della legge n. 40/2004, conferendo un decisivo rilievo alla tutela fisica e psichica della donna.
Secondo Lei quale incidenza hanno avuto tali statuizioni in considerazione dello scopo di conferire maggiore rilievo alla tutela della donna in questa materia?
La Corte parte dalla premessa che la tutela dell’embrione non è “assoluta, ma limitata dalla necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze di procreazione”, offrendo un maggiore equilibrio tra i diritti del concepito e quelli della donna. Questi principi sono stati accolti anche dalla Corte europea dei diritti umani che recentemente ha bocciato proprio la disposizione normativa italiana che prevede l’impossibilità per una coppia fertile, ma portatrice di una malattia genetica, di accedere alla diagnosi preimpianto degli embrioni.
Si tratta di una statuizione che è stata confermata nel febbraio 2013 anche a seguito del ricorso del Governo Italiano presso la Grande Chambre e che conferma la necessità di rimettere mano all’impianto normativo della Legge 40 in alcuni suoi aspetti fondamentali.
Il problema che decisioni di questo genere pongono sul tema della procreazione assistita è soprattutto di natura etica e si articola lungo binari che portano a chiedersi fino a che punto potranno spingersi la scienza e il diritto in questo delicato settore della vita delle persone e sino a dove potrà spingersi la "demolizione" del consolidato concetto di famiglia.
Secondo Lei quale potrebbe essere una soluzione al problema?
A mio avviso si dovrebbe partire dal concetto di famiglia in cui è bene che venga tutelata non solo la persona che si sottopone a tali tecniche di procreazione, ma anche il nascituro al quale deve essere garantito un nucleo sociale che gli permetta di crescere serenamente. Considerando il caso di due coniugi che per vari motivi non possono procreare, il ricorso degli stessi alla fecondazione assistita eterologa, determinerebbe l'intervento di un soggetto terzo alla famiglia stessa, il quale non va considerato come elemento estraneo che stravolge il concetto tradizionale di famiglia così come cristallizzato nella nostra cultura, bensì come soggetto esterno che per spirito di "solidarietà" e "umanità" dona quell'elemento essenziale ed imprescindibile per la nascita del bambino. In una società dove ormai è riconosciuta la struttura della Famiglia "allargata" e dove è ammissibile sopprimere il nascituro con l'aborto, non si comprende il perché debba essere vietato o precluso il desiderio di donare un elemento del proprio corpo che, a mio avviso, non è ancora un essere umano. Il problema è anche quello di trovare la formula giuridica che tuteli tutti i soggetti che vengono coinvolti nella nascita, che potrebbe essere, senza tanti stravolgimenti giuridici, quella di ammettere il ricorso alla fecondazione assistita eterologa solo alle coppie legalmente unite, in modo tale da conservare la struttura familiare storica radicata nella nostra cultura e, nel contempo, attribuire il riconoscimento del figlio naturale esclusivamente alla madre, come è previsto peraltro in alcuni casi già dalla normativa prima richiamata, con esclusione del donatore da ogni diritto e dovere di genitorialità. Si verrebbe quindi a costituire in questo modo un nucleo familiare formato dal marito consenziente, dalla moglie e dal figlio naturale di quest'ultima. In tal modo parte del "turismo procreativo" verso le strutture sanitarie estere, che hanno dato vita ad un vero e proprio “business” a danno delle famiglie che vivono con rilevanti problemi questa esperienza, verrebbe a cadere e si riuscirebbero a creare i presupposti per fruire dei reali benefici che la scienza biotecnologica è capace di offrire nella massima trasparenza, evitando gravi pericoli alla sicurezza delle persone che vi si sottopongono e tutelando, nel contempo, in modo più appropriato il nascituro, senza turbare l’equilibrio del genere umano.
Ringraziamo l’Avv. Rispoli per la sua grande disponibilità e per il momento lo salutiamo in attesa di un nuovo incontro, ove speriamo potrà soddisfare ulteriori nostre curiosità su questo tema e su altri ad esso connessi.