1. Premesso che è impossibile riassumere in poche righe i fiumi d’inchiostro sui quali si sono cimentate giurisprudenza e dottrina nel corso di decenni, potrebbe spiegarci le differenze sul piano astratto tra la categoria della colpa cosciente e quella del dolo eventuale?
È una distinzione imposta dal nostro diritto positivo: chi agisce “nonostante la previsione dell’evento” commette un delitto colposo, ma opera la circostanza aggravante prevista dall’art. 61 n. 3 c. p. Vale a dire che si è comunque puniti a titolo di colpa e perciò meno severamente rispetto al dolo, ma la pena è aumentata dal giudice fino a un terzo (salvo il bilanciamento con eventuali circostanze attenuanti).
Il dolo “eventuale” postula un di più perché fa scattare la pena prevista per i delitti dolosi. Esige cioè non solo la rappresentazione ma la volontà del fatto. Non a caso il codice penale parla di delitto “secondo l’intenzione”. D’altronde nei delitti la responsabilità per colpa (ancorché aggravata) presuppone un’espressa previsione di legge, mentre per il dolo si ricava in via generale dall’art. 42, co. 2, c. p.
2. In dottrina come in giurisprudenza nel corso degli anni sono emersi due modi profondamente diversi di intendere il dolo eventuale: l'uno che si accontenta di fatto della prova della previsione (attuale) della possibile verificazione del'evento in capo all'agente; l'altro che esige invece un quid plurisrispetto a tale previsione, rappresentato da un almeno rudimentale bilanciamento tra i benefici che l'agente si propone di ottenere mediante il compimento dell'azione e i possibili pregiudizi connessi alla verificazione dell'evento penalmente rilevante. La recentissima sentenza della Cassazione sulla ThyssenKrupp sembra spostare l’asse verso quest’ultimo orientamento che fino a ieri si può dire fosse minoritario. Condivide questa affermazione? Si tratta di una direzione corretta secondo lei?
Per poter esprimere un’idea precisa occorrerà naturalmente attendere la motivazione della sentenza. Stando alla prima informazione curata dagli uffici, sembra che la Corte si sia orientata nel senso di valorizzare contrassegni del dolo eventuale acclarati dalla nostra tradizione giuridica. Lo si coglie in particolare dal riferimento alla “direzione della volontà verso l’evento”, assente nella colpa; alla “organizzazione della condotta in vista dell’evento” nonché al dolo eventuale come “rimproverabile atteggiamento interiore”, formula che sembra respingere un suo accertamento oggettivo o impersonale. Fortemente sintomatici della concezione del dolo eventuale come dato (anche) psicologico, che le sezioni unite sembrano coltivare, appaiono pure altri passaggi della sentenza, specie là dove richiede che l’agente si sia “determinato ad agire” nonostante la chiara previsione di una concreta possibilità dell’evento nel segno di una vera e propria “adesione” all’evento medesimo.
Ebbene, “determinarsi ad agire” pur avendo previsto l’evento è qualcosa di più dell’aver semplicemente agito. Né sarebbe sufficiente – contrariamente ad alcuni indirizzi – che l’agente abbia previsto l’evento, senza escluderne la potenziale realizzazione. Il giudice dovrebbe risalire a una decisione consapevolmente assunta dal reo – se si vuole a un programma d’azione – nello sprezzo per il bene offeso. Da questa angolazione, come detto, la prova non può non essere individualizzata.
Va invece approfondito il richiamo della sentenza alla «rigorosa dimostrazione che l’agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta». La precisazione è corretta: perché sussista il dolo eventuale dell’omicidio non basta che il soggetto pensi alla possibilità di “far male” a qualcuno, deve prevedere la possibilità della morte. Ma non basta neppure che faccia i conti genericamente o “astrattamente” con potenziali eventi mortali: deve rappresentarsi l’evento come dato concreto, a carico di vittime altrettanto concrete. E’ essenziale.
3. La discussione sugli incerti confini tra colpa cosciente e dolo eventuale ha portato diversi studiosi a riflettere sull’eventuale introduzione, de iure condendo, di un titolo di responsabilità intermedio tra dolo e colpa, destinato ad intercettare le ipotesi di consapevole creazione, da parte dell’agente, di un rischio macroscopico di causazione dell’evento penalmente rilevante. Si tratta di ipotesi che negli ordinamenti di common law sono notoriamente coperte dalla c.d. recklessness, un elemento psicologico del reato di gravità intermedia tra intention e negligence. Secondo lei si tratta solo di suggestioni normative oppure una proposta del genere trasferita nel nostro ordinamento potrebbe rappresentare una reale terza via dotata di un’effettiva efficacia dirimente su questa annosa questione?
La prospettiva non è nuova: l’introduzione di forme intermedie di colpevolezza, a cavallo tra dolo e colpa, è stata studiata dalla dottrina sin dalla fine dell’ottocento. L’analisi ha toccato la figura della recklessness, di matrice anglosassone: a patto di salvaguardarne le componenti psicologiche, essa potrebbe coprire l’area della “sconsiderata” assunzione di un rischio. Anche il diritto penale internazionale sembra oggi muoversi in direzione non dissimile allorché struttura la responsabilità del superiore gerarchico nelle organizzazioni collettive.
L’ordinamento italiano non può ignorare questi sviluppi, ma neppure recepirli supinamente, quasi si trattasse di una panacea. Quale che possa essere la veste giuridica adottata – con generale previsione di punibilità delle forme intermedie di colpevolezza o attraverso norme ad hoc, puntate a specifiche tipologie di reati – residuerebbe il problema di distinguere: verso l’alto, tra dolo e deliberata assunzione di un rischio; verso il basso, tra quest’ultima e la colpa.
Occorrerebbe d’altra parte riflettere sulle premesse sistematiche di fondo: siamo convinti che chi scelga di mettere a repentaglio valori essenziali, magari per proprio tornaconto, commetta un fatto non doloso e meriti, perciò, una pena meno severa? Certo, quel che sembra indiscutibile è che la categoria del dolo eventuale, per acquisire stabilità, debba essere definita dalla legge, in ossequio a elementari principi di certezza. In tal senso si è sviluppato il movimento interno di riforma fin dagli anni ’90 del secolo scorso, con il progetto della commissione ministeriale presieduta dal professor Pagliaro. Il legislatore dovrebbe anche riflettere se estendere l’applicazione del dolo eventuale a tutti i reati o limitarla sulla base della qualità dell’interesse protetto. Se in gioco ci sono beni della persona – vita, incolumità, personalità individuale, libertà personale o sessuale, onore – può essere ragionevole una tutela più incisiva che tenga conto dell’atteggiamento di consapevole disinteresse manifestato dal reo nell’intraprendere rischi eccessivi.