ASN: Tar Lazio, criterio del primo ultimo nome non sempre sufficiente a motivare apporto individuale del candidato
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Cade uno dei criteri più noti alla comunità scientifica per la verifica dell’apporto individuale nelle pubblicazioni con più autori.

Come è noto, e come anche nella procedura di abilitazione scientifica nazionale per Professore di prima fascia sottoposta al T.A.R. Lazio era avvenuto, “ai fini della valutazione verrà tenuto conto del criterio della proprietà intellettuale dei lavori presentati (authorship) basata sulla posizione del nome del candidato fra gli autori della pubblicazione; in particolare primo, ultimo (o co-primo dichiarato nel lavoro) o autore corrispondente”.

In ricorso, tuttavia, si era sostenuto che non sempre tale criterio rappresenta una corretta bussola di sistema giacché, anche attraverso altri indici, l’autore può dimostrare il suo contributo rilevante smentendo quello ordinariamente utilizzato.

Il T.A.R. ha aderito a tale tesi. “Orbene, pur ammettendosi che il “posizionamento” del contributo possa assumere, nei giudizi della Commissione, valenza sintomatica dell’apporto dell’autore nei lavori in collaborazione, ai sensi dell’articolo 4 lettera b) del regolamento, deve tuttavia escludersi che la Commissione possa addivenire ad un giudizio complessivo sfavorevole sulle pubblicazioni sulla base di quest’unico parametro, specie se il contributo dell’autore è comunque individuabile attraverso diversi criteri”.

Se, come siamo riusciti a dimostrare in giudizio, “il contributo individuale del ricorrente è oggettivamente accertabile anche in quelle pubblicazioni nelle quali lo stesso non risulta collocato secondo l’ordine previsto nel criterio elaborato” dalla Commissione, ben può il Giudice Amministrativo annullare tale valutazione.

Rileva al riguardo che se «il primo nome, l’ultimo nome e il c.d. “corrisponding” costituiscono di norma i soggetti che contribuiscono in modo preponderante alla stesura di un lavoro scientifico è però anche vero che, in certi casi, l’anzidetta suddivisione non rispecchia effettivamente l’apporto di ogni autore»; in queste ipotesi particolari la “stessa pubblicazione scientifica – che com’è noto è sempre sottoposta a referaggio da parte di soggetti terzi – si preoccupa di precisare il ruolo che ogni autore ha avuto nel lavoro in collaborazione”. Ne consegue che, per lo meno in tali casi, per valutare il rilievo del contributo di ogni autore, non avrebbe significato la “collocazione” dello stesso all’interno dei lavori in collaborazione.

T.A.R. Lazio, Sez. IV, 27 aprile 2022.

Concorso per titoli ed esami per il reclutamento di n. 1409 allievi finanzieri. Il TAR del Lazio riammette il candidato vincitore.
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L’Amministrazione aveva disposto l’esclusione del ricorrente (che aveva superato tutte le fasi concorsuali) dal concorso per non aver rispettato “la tempistica stabilita dal Centro di Reclutamento” per l’inoltro della documentazione medica integrativa.

Nonostante il candidato si fosse attivato in tempo utile per l’inoltro della documentazione medica richiesta dal Centro di Reclutamento, questa veniva consegnata il giorno successivo a quello indicato sulla lettera di richiesta.

L’Amministrazione procedeva con l’esclusione del candidato senza alcuna preventiva comunicazione limitandosi a rilevare l’arrivo fuori termine e ciò nonostante il giorno in cui si riuniva la Commissione per la verifica della detta documentazione questa fosse in suo possesso.

Il TAR accoglieva il ricorso rilevando in primis che al ricorrente non veniva contestata la mancanza dei requisiti medici e che non possono pesare sullo stesso difficoltà dell’Amministrazione.

Il candidato difatti, una volta ricevuta la richiesta del Centro di Reclutamento si attivava immediatamente per ottenere il certificato ed inoltrava ben due raccomandate (consegnate con ritardo) ed una pec non pervenuta per motivi tecnici dell’Amministrazione.

Nella sentenza del TAR si legge testualmente: “È, pertanto, illegittimo ed illogico che il ricorrente debba subire le conseguenze negative di un’attività rimessa al gestore del servizio postale: un principio ribadito dalla Corte Costituzionale, ad avviso della quale “sebbene sia sempre possibile delineare, in materia di responsabilità per danni causati agli utenti del servizio postale, una disciplina speciale ispirata a criteri più restrittivi di quella ordinaria, in rapporto alla complessità tecnica della gestione del servizio ed all’esigenza del contenimento dei costi, tuttavia la carenza di siffatta disciplina della responsabilità del gestore del servizio è in grado di tradursi in un privilegio, privo di connessione con obiettive caratteristiche del servizio e, perciò, lesivo, al tempo stesso, del canone di ragionevolezza e del principio di eguaglianza garantiti dall’articolo 3 della Costituzione (sentenza n. 254 del 2002)” (cfr. sentenza 11 febbraio 2011, n. 46)”.

Rilevava la difesa come ad essere violati siano stati i principi di buona amministrazione e buona andamento e nonché i principi costituzionali di cui  agli art.li 1, 2 e 97 della Costituzione che si concretizzano non solo nel principio c.d. del principio di favor partecipationis, ma anche in quello della tassatività delle cause di esclusione e di ragionevolezza.

Seminario 10 novembre 2021: Concorsi pubblici e tutela cautelare
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In fase di acquisizione 2 crediti al CNF.
Oggi, 10 novembre, in modalità on line ed in presenza, sarò relatore accanto ad importanti esponenti della magistratura di primo e di secondo grado, nonché di docenti universitari per parlare di concorsi pubblici, tutela giurisdizionale, tutele monocratica e collegiale. Per iscrivervi cliccate qui http://convegni-diritto.ilsole24ore.com/convegno-roma-10-11-21/ poi riceverete il link per partecipare, mentre per venire dal vivo basta una e mail a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo." ' + path + '\'' + prefix + ':' + addy25659 + '\' style="color: rgb(0, 0, 0);">'+addy_text25659+'<\/a>'; //-->
Bocciatura illegittima: accolto il ricorso dell’Avvocato Bonetti. Ammesso il risarcimento del danno in sede di giurisdizione ordinaria.
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Nell’anno 2011, alla famiglia di una nostra cliente veniva comunicato il provvedimento di mancata ammissione alla classe successiva a causa di un errato computo sulle assenze.

Infatti, a seguito di apposita richiesta di chiarimenti da parte della famiglia, il Dirigente Scolastico si rendeva conto dell’errore e decideva, di conseguenza, di agire autonomamente, senza coinvolgere il Consiglio di Classe, assegnando due crediti formativi all’alunna.

Il D.S. adottava tale provvedimento pur non essendone legittimato, in quanto tale decisione spetta(va) al Consiglio di Classe.

Avverso tale abuso perpetrato dal Dirigente, la famiglia della alunna decideva di incardinare ricorso per il risarcimento del danno presso il Tribunale di Roma, adducendo, tra gli altri, anche la responsabilità a titolo di culpa in vigilando.

Il Giudice di prime cure, analizzando la questione, erroneamente rilevava il difetto di giurisdizione in favore del Giudice Amministrativo. Avverso tale sentenza, lo Studio Legale presentava appello prospettando una tesi poi accolta dalla Corte di Appello di Roma.

Difatti, il Collegio, assecondando le censure mosse dal Legale, riteneva che il caso di specie dovesse essere rubricato all’istituto del “risarcimento del danno ingiusto derivante dalla responsabilità diretta di una persona fisica”, anche se pubblico funzionario della pubblica amministrazione, in quanto “non rileva il ruolo e l’incarico svolto né viene impugnato un provvedimento caratterizzato dall’esercizio di un potere pubblico autoritativo, condizione per affidare la controversia al giudice amministrativo”.

Il Giudice chiosava sottolineando l’illegittimo comportamento del Dirigente Scolastico che dapprima notificava un provvedimento di mancata ammissione basato su un palese errore di calcolo, salvo poi decidere di adottare un provvedimento di rettifica contra legem senza coinvolgere necessariamente il Consiglio di Classe, (e) con ciò ponendo in essere una sequenza di azioni che … sono frutto di un errore nella qualità di responsabile legale dell’istituto scolastico”.

La Corte di Appello, nel valutare preliminarmente la responsabilità del Dirigente, riconosceva la giurisdizione del Giudice Ordinario avocando a sé l’onere decisorio sulla questione. Per tale motivo, statuiva per la riammissione della controversia presso il Tribunale di Roma.

Commenta l’Avvocato Bonetti: “trattavasi di una questione altamente complessa che si stagliava del districato mondo della giurisdizione. Per analizzare la questione nel suo complesso, si è reso necessario reperire la Giurisprudenza più risalente che, dal 2006 ad oggi, ha statuito sul punto. Al termine della predetta analisi, siamo riusciti ad elaborare una tesi esaustiva sul punto che è stata completamente accolta dai Giudici della Corte di Appello.

Ora, non resta che riassumere la controversia presso il Tribunale di Roma per far valere i diritti del nostro cliente che già, parzialmente, sono stati riconosciuto dalla sentenza della Corte di Appello”.

La controversia, infatti, dovrà essere riassunta dinanzi al Tribunale capitolino, presso il quale verranno ripresentate tutte le censure a sostegno dell’ingiustizia del danno subito dall’alunna.

 

ACCOLTO IL RICORSO GERARCHICO SULLA QUESTIONE DELLA DECADENZA DAGLI STUDI UNIVERSITARI
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Decadenza universitaria: L’ ateneo in via di autotutela, riammette al corso di laurea lo studente inizialmente dichiarato decaduto.
Con provvedimento in via di autotutela, il Rettore dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia ha accolto il nostro ricorso gerarchico, con contestuale richiesta di autotutela, accogliendo le tesi in materia di decadenza confermate dalla giurisprudenza amministrativa relativa a contenziosi da noi patrocinati clicca qui
Nella vicenda in esame l’Ateneo, esaminata l’istanza, ha infatti emesso provvedimento amministrativo di rettifica, consentendo ad uno studente ingiustamente dichiarato decaduto per inattività, di proseguire il percorso di studi.
Evidente come la decisione dell’Ateneo abbia consentito di evitare un inutile contenzioso, dall’esito certamente positivo per lo studente, evitando peraltro i tempi lunghi di un procedimento giudiziario.
La Pubblica Amministrazione dunque è ritornata su una decisione già presa per rimuovere gli effetti del provvedimento originario, con efficacia retroattiva, risolvendo conflitti, attuali o potenziali, senza l'intervento di un giudice.
Nello specifico, l’Ateneo in maniera del tutto illegittima aveva ritenuto che lo studente fosse incorso nella decadenza dalla qualità di studente ai sensi dell’art. 32 del regolamento didattico “che prevede che lo studente, decade qualora non superi alcun esame di profitto per cinque anni accademici consecutivi”.
Tuttavia, contrariamente da quanto asserito nel proprio regolamento di Ateneo, l’art. 149 del T.U. 1933/1592, prevede la decadenza dalla qualità di studente nel caso di soggetti che non abbiano sostenuto esami per otto anni consecutivi, e non cinque come previsto erroneamente dall’Ateneo in questione.
L’Ateneo ha, pertanto, riattivato la carriera universitaria in Medicina e Chirurgia del ricorrente.
Trattasi dell’ennesima pronuncia favorevole che, tuttavia, è avvenuta in via di autotutela e con tempi sicuramente più brevi, rispetto a quelli dettati dinanzi al Giudice Amministrativo.

Lo studio legale Bonetti vince dinanzi al Collegio dell’ABI (Arbitrato Bancario Finanziario). In caso di sistema di sicurezza della carta di credito difforme dalle indicazioni dell’European Banking Autority (EBA) il correntista deve essere rimborsato
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Lo studio legale Bonetti ha rappresentato e difeso un correntista di un noto istituto bancario italiano dopo che si era visto sottrarre ingenti somme di denaro sul proprio conto corrente mediante utilizzo fraudolento da parte di terzi della propria carta di credito.

Nello specifico, venivano poste in essere operazioni “on-line” di cui il correntista veniva a conoscenza mediante sms ricevuti sul cellulare e per cui si attivava prontamente per interrompere l’attività dolosa posta in essere da terzi.

Alla richiesta di rimborso proposta dal correntista direttamente all’intermediario finanziario, quest’ultimo, riteneva che “le operazioni risultavano debitamente registrate e autenticate mediante piattaforma 3D Secure. Queste richieste – oltre ai dati statici delle carte (PAN, scadenza e CVV) – l’inserimento del codice OTP di 6 cifre inviato al cellulare del cliente. Pertanto la ricorrente deve necessariamente aver comunicato il codice OTP trasmessole, presumibilmente in seguito a una frode di tipo phishing”.

In netto dissenso con quanto sostenuto dall’Istituto Bancario e in accoglimento totale delle doglianze proposte dallo studio legale Bonetti, il collegio dell’Arbitrato Bancario Finanziario di Roma, ha rilevato la responsabilità esclusiva dell’Istituto bancario nella descritta vicenda.

Il Collegio, interpellato mediante ricorso proposto dallo studio legale Bonetti, ha osservato che, nel caso di specie, il protocollo 3D Secure applicato dall’intermediario resistente non era coerente con le indicazioni fornite dalla European Banking Authority (EBA) nel documento “Opinion of the European Banking Authority on the elements of strong customer authentication under PSD2”, perché l’OTP ricevuto tramite SMS costituisce il richiesto elemento di possesso, mentre i dati riportati sulla carta (numero carta di credito, scadenza dello strumento e CVV), non costituiscono né un elemento di possesso né un elemento di conoscenza.

Il meccanismo utilizzato non è pertanto coerente con i requisiti richiesti per l’autenticazione “forte”.

Pertanto, l’ABI ha disposto l’esclusiva responsabilità della Banca per ogni operazione fraudolenta, anche se frutto di un comportamento colposo del titolare disponendo il rimborso dell’intera somma detratta dal conto corrente del nostro assistito.

La nostra tesi, oggi accolta dal Collegio di Roma, difatti, conclude l’Avvocato Michele Bonetti “dimostra che nonostante la posizione di fermezza assunta dalla Banca nel negare le proprie responsabilità, siamo riusciti, ancora una volta, a fare giustizia su una vicenda particolarmente complessa.”

T.A.R. Lazio: il fascicolo processuale “sfugge alla disciplina” dell’accesso agli atti
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Il T.A.R. Lazio con l’ordinanza n. 3553 del 24 marzo 2021 ha ritenuto di non concedere l’accesso al fascicolo processuale ad un controinteressato sostanziale alle domande spiegate in giudizio.

Come noto, alla luce della disciplina del processo amministrativo telematico (introdotta in attuazione dell'art. 38 D.L. n. 90/2014, convertito in l. 11 agosto 2014, n. 114, a seguito del quale è stato emanato il D.P.C.M. n. 40/2016 avente ad oggetto il “Regolamento recante le regole tecnico-operative per l'attuazione del processo amministrativo telematico” oggi sostituito con D.P.C.S. n. 134/2020) tutti i fascicoli, sia precedenti che successivi alla riforma, sono stati digitalizzati e dunque il fascicolo processuale riferibile al singolo procedimento, contenente tutte le informazioni e dati ad esso riferibile, è oramai tenuto sotto forma di fascicolo informatico.

Diversamente dall’accesso ai provvedimenti del giudice, assicurato tramite pubblicazione sul sito web della giustizia amministrativa a qualunque cittadino, l’accesso al fascicolo informatico è riservato alle sole parti costituite. Solo qualora vi fossero soggetti terzi interessati a visionare il fascicolo di parte al fine di intervenire nel procedimento, il G.A. dovrà, previa specifica e motivata istanza, valutare se consentire l’accesso al fascicolo. Difatti, a norma dell’art. 17, comma 3, del D.P.C.S. n. 134/2020 All. 1 e 2, “L'accesso di cui al comma 1 è altresì consentito ai difensori muniti di procura, agli avvocati domiciliatari, alle parti personalmente nonché, previa autorizzazione del Giudice, a coloro che intendano intervenire volontariamente nel giudizio”.

Nella prassi, ove l’interesse attuale e concreto all’accesso (finalizzato ad intervenire) risulti lampante, il Presidente della sezione può provvedere con decreto ammettendo il terzo richiedente a visionare il fascicolo, diversamente la sussistenza dell’interesse dovrà essere oggetto di valutazione anche per la circostanza che i documenti attinenti al procedimento non sono soggetti alla disciplina dell’accesso di cui alla Legge 241/1990 e soggetti a particolari criteri di riservatezza.

In tal senso si è espresso il TAR del Lazio il quale, dopo aver fissato una specifica udienza al fine di consentire il contraddittorio tra le parti e verificare l’interesse concreto del richiedente, ha respinto la richiesta.

Secondo il T.A.R. ove “l’istanza prov[enga], tramite il suo difensore, da un soggetto che non è parte del giudizio”, deve ritenersi che la stessa non possa trovare accoglimento in quanto “l’accesso agli atti e ai documenti processuali sfugge alla disciplina dettata dagli artt. 22 ss. della l. n. 241/1990” e “nessuna norma consente l’accesso al fascicolo processuale da parte di un soggetto, diverso dalle parti”. Va esclusa, quindi, “la possibilità per i soggetti terzi di accedere agli atti del fascicolo telematico (cfr. Tar Milano, Sez. IV, 22 gennaio 2020, n. 1158; C.G.A.R.S., Sez. I, d.p. n. 150/2020; T.A.R. Campania – Salerno, Sez. II, d. p. n. 902/2018)” (T.A.R. Lazio, Sez. III bis, 24 marzo 2021, n. 3553).

La posizione espressa dal TAR del Lazio è condivisibile, anche in ossequio del diritto alla riservatezza e alla protezione dei dati personali delle parti processuali che, nel caso in cui si optasse per un diritto accesso “indiscriminato” al fascicolo, potrebbe essere minato. In ogni caso non può non osservarsi che l’istanza di accesso al fascicolo informatico proveniente da un avvocato e motivata da esigenze di difesa, ove vi sia un comprovato interesse, non può pregiudicare il diritto dell’interventore ad una piena tutela (alla quale si accede anche attraverso la visione del fascicolo). L’esigenza di riservatezza delle parti processuali, dunque, deve essere contemperata con il diritto di difesa costituzionalmente tutelato.

 

Avv. Claudia Palladino

LA CORTE COSTITUZIONALE CONFERMA L’INESISTENZA DI POTERI LOCALI IN TEMA COVID
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La Corte Costituzionale, con una sentenza di ampio respiro, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della Legge regionale della Valle d’Aosta, ha affrontato, in maniera sistematica, il regime dei poteri (Statali, regionali e locali) in momenti pandemici.

Lo Stato, difatti, aveva impugnato in via diretta innanzi alla Corte Costituzionale la Legge regionale sostenendo, in sintesi, che “non spetterebbe al legislatore regionale introdurre un meccanismo di contrasto all’epidemia che diverge da quello progettato dalla legge dello Stato, quale che sia in concreto il grado di siffatta divergenza”.

Secondo la Corte, “a fronte di malattie altamente contagiose in grado di diffondersi a livello globale, «ragioni logiche, prima che giuridiche» (sentenza n. 5 del 2018) radicano nell’ordinamento costituzionale l’esigenza di una disciplina unitaria, di carattere nazionale, idonea a preservare l’uguaglianza delle persone nell’esercizio del fondamentale diritto alla salute e a tutelare contemporaneamente l’interesse della collettività (sentenze n. 169 del 2017, n. 338 del 2003 e n. 282 del 2002).

Accade, infatti, che ogni decisione in tale materia, per quanto di efficacia circoscritta all’ambito di competenza locale, abbia un effetto a cascata, potenzialmente anche significativo, sulla trasmissibilità internazionale della malattia, e comunque sulla capacità di contenerla (…). Né si tratta soltanto di questo. Un’azione o un coordinamento unitario può emergere come corrispondente alla distribuzione delle competenze costituzionali e alla selezione del livello di governo adeguato ai sensi dell’art. 118 Cost., per ogni profilo di gestione di una crisi pandemica, per il quale appaia invece, secondo il non irragionevole apprezzamento del legislatore statale, inidoneo il frazionamento su base regionale e locale delle attribuzioni“.

Tale conclusione può dunque concernere non soltanto le misure di quarantena e le ulteriori restrizioni imposte alle attività quotidiane, in quanto potenzialmente fonti di diffusione del contagio, ma anche l’approccio terapeutico; i criteri e le modalità di rilevamento del contagio tra la popolazione; le modalità di raccolta e di elaborazione dei dati; l’approvvigionamento di farmaci e vaccini, nonché i piani per la somministrazione di questi ultimi, e così via. In particolare i piani di vaccinazione, eventualmente affidati a presidi regionali, devono svolgersi secondo i criteri nazionali che la normativa statale abbia fissato per contrastare la pandemia in corso“.

E’ profondamente errato, dunque, pensare di poter imporre misure diverse da quelle nazionali richiamando la peculiarità del proprio territorio.

 

Ognuno di tali profili“, contina la Corte, “è solo in apparenza confinabile ad una dimensione territoriale più limitata. Qualora il contagio si sia diffuso sul territorio nazionale, e mostri di potersi diffondere con tali caratteristiche anche oltre di esso, le scelte compiute a titolo di profilassi internazionale si intrecciano le une con le altre, fino a disegnare un quadro che può aspirare alla razionalità, solo se i tratti che lo compongono sono frutto di un precedente indirizzo unitario, dotato di una necessaria visione di insieme atta a sostenere misure idonee e proporzionate“.

La Corte, sul punto, per spiegare l’inesistenza di un persistente potere di ORDINANZA CONTINGIBILE E URGENTE REGIONALE O LOCALE IN MATERIA COVID, su cui ci siamo occupati con analoghe conclusioni, ripercorre la previgente legislazione.

Fin dall’art. 32 della legge n. 833 del 1978“, ricorda la Corte, “si è stabilito che il potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti in materia di igiene e sanità pubblica spetti a Regioni ed enti locali, esclusivamente laddove l’efficacia di tali atti possa essere garantita da questo livello di governo, posto che compete invece al Ministro della salute provvedere quando sia necessario disciplinare l’emergenza sull’intero territorio nazionale o su parti di esso comprendenti più RegioniChe con tale previsione il legislatore non abbia inteso riferirsi all’ovvio limite territoriale di tutti gli atti assunti in sede decentrata, ma, piuttosto, alla natura della crisi sanitaria da risolvere, viene poi confermato dall’art. 117 del d.lgs. n. 112 del 1998, che modula tra Comune, Regione e Stato gli interventi emergenziali nella materia qui coinvolta, a seconda «della dimensione dell’emergenza e dell’eventuale interessamento di più ambiti territoriali regionali». Tale disciplina ha poi trovato conferma nell’art. 50, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali)“.

Nel vigore del nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione, infine, l’indirizzo volto ad adattare il governo dell’emergenza, anche sanitaria, al carattere locale o nazionale di essa, ha trovato ulteriore sviluppo con il decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1 (Codice della protezione civile). L’art. 7, comma 1, lettera c), in correlazione con l’art. 24 seguente, radica nello Stato il potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti di protezione civile, acquisita l’intesa con le Regioni e le Province autonome «territorialmente interessate», sicché, ancora una volta, è l’eventuale concentrazione della crisi su di una porzione specifica del territorio ad imporre il coinvolgimento delle autonomie quando, pur a fronte di simile localizzazione, l’emergenza assuma ugualmente “rilievo nazionale”, a causa della inadeguata «capacità di risposta operativa di Regioni ed enti locali» (sentenza n. 327 del 2003; in seguito, sulla necessità di acquisizione dell’intesa in tali casi, sentenza n. 246 del 2019 (…); sentenza n. 284 del 2006)”.

Tale conclusione non può che rafforzarsi a fronte di una pandemia, i cui tratti esigono l’impiego di misure di profilassi internazionale. È quanto successo, difatti, a seguito della diffusione del COVID-19, il quale, a causa della rapidità e della imprevedibilità con cui il contagio si spande, ha imposto l’impiego di strumenti capaci di adattarsi alle pieghe di una situazione di crisi in costante divenire“.

Fin dal decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6 (Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 5 marzo 2020, n. 13, il legislatore statale si è affidato ad una sequenza normativa e amministrativa che muove dall’introduzione, da parte di atti aventi forza di legge, di misure di quarantena e restrittive, per culminare nel dosaggio di queste ultime, nel tempo e nello spazio, e a seconda dell’andamento della pandemia, da parte di decreti del Presidente del Consiglio dei ministri. L’art. 1 del d.l. n. 33 del 2020 ha poi reputato opportuno attribuire uno spazio di intervento d’urgenza anche ai sindaci (comma 9), e, soprattutto, alle Regioni (comma 16), alle quali, nelle more dell’adozione dei d.P.C.m., compete l’introduzione di «misure derogatorie restrittive rispetto a quelle disposte» dal d.P.C.m., ovvero anche “ampliative”, ma, per queste ultime, d’intesa con il Ministro della salute, e nei soli casi e nelle forme previsti dai decreti del Presidente del Consiglio dei ministri”.

Tale previsione, continua successivamente la Corte, ha lo “scopo di assicurare che, nel tempo necessario ad aggiornare le previsioni statali alla curva epidemiologica, non sorgano vuoti di tutela, quanto a circostanze sopravvenute e non ancora prese in carico dall’amministrazione statale. È il caso, ad esempio, della sospensione delle attività didattiche prescritta con ordinanze regionali, il cui fondamento riposa non su una competenza costituzionalmente tutelata delle autonomie, ma sull’attribuzione loro conferita dall’art. 1, comma 16, del d.l. n. 33 del 2020.

Ciò che la legge statale permette, pertanto, non è una politica regionale autonoma sulla pandemia, quand’anche di carattere più stringente rispetto a quella statale, ma la sola disciplina (restrittiva o ampliativa che sia), che si dovesse imporre per ragioni manifestatesi dopo l’adozione di un d.P.C.m., e prima che sia assunto quello successivo“.

Punto. Non vi sono ulteriori spazi di azione.

Avv. Santi Delia 

L&#039;autorefezione ai tempi del COVID. L&#039;importante pronuncia del Consiglio di Stato.
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Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2 dicembre 2020 n. 7640

Presidente Estensore Dott. Sergio Santoro

commento a sentenza

“La richiesta di consumare individualmente il proprio pasto in linea di principio deve dunque ammettersi e può essere accolta, seppure secondo modalità che favoriscano la socializzazione degli alunni, ma soprattutto ne azzerino i rischi in materia di salute e sicurezza, in applicazione analogica dell'art. 26, quinto comma, del D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (su tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), ed in ogni caso sotto la vigilanza del corpo docente”.

 

ANALISI DEL CASO

La vicenda definita con la sentenza in commento trae origine dal ricorso incardinato dinanzi al TAR per la Lombardia, sede di Brescia, da parte dei genitori degli alunni di una scuola primaria che, nell’ambito dell’organizzazione scolastica che prevede quattro rientri obbligatori settimanali, negava agli alunni che avevano rifiutato il servizio di ristorazione collettiva di consumare gli alimenti di preparazione domestica nei locali adibiti a refettorio.

Parte ricorrente, stante la possibilità di scegliere, in luogo della mensa scolastica, un pasto domestico da consumare nei locali scolastici nell’orario destinato alla refezione, lamentava una grave discriminazione nei confronti degli alunni che avevano scelto tale opzione i quali non venivano ammessi a consumare i pasti nel refettorio comune al pari degli altri studenti e ai quali si negava, in quel segmento temporale, la sorveglianza del personale scolastico.

Il TAR di Brescia rigettava il ricorso di parte ricorrente, motivando la decisione in ragione dei rischi di contaminazione e scambio degli alimenti tra gli studenti argomentando che “la pretesa dei ricorrenti va prudentemente bilanciata con il corrispondente diritto degli altri discenti (e dei loro genitori) a che ogni attività svolta all’interno della scuola sia svolta in condizioni di ragionevole sicurezza”.

I ricorrenti proponevano appello al Consiglio di Stato che, riformando integralmente la sentenza di primo grado, lo accoglieva ponendo l’accento sui diritti degli studenti, anche costituzionalmente garantiti, di prendere parte ad un importante momento educativo e rimarcando come la vigilanza da parte del personale scolastico debba sempre essere garantita, anche nell’orario di mensa.

 

COMMENTO

Quello della refezione è un momento molto importante nell’educazione di un bambino e, come tale, merita particolare attenzione al pari di ogni altra attività scolastica. Il pasto, difatti, non è solo una parentesi necessaria per il soddisfacimento di esigenze nutrizionali ma è anche uno spazio educativo e di promozione della salute dei bambini.

Sul punto sono concordi le Amministrazioni, il Legislatore e la giurisprudenza maggioritaria, seppur talvolta con dubbi interpretativi nell’applicazione pratica di tali principi, per la necessità di un contemperamento di interessi contrapposti e per l’efficace organizzazione delle strutture e del personale scolastico.

Se sussiste il diritto di scegliere un pasto domestico da consumarsi nell’orario destinato alla refezione e se il modello scolastico adottato prevede quattro rientri pomeridiani obbligatori, è necessario raccordare le posizioni di coloro che scelgono l’autorefezione e di coloro che, invece, si affidano alla refezione scolastica, in modo che da entrambi i lati non vi siano discriminazioni né rischi per la salute e la sicurezza.

Assume centrale rilievo in tal senso il concetto di “tempo scuola” che inequivocabilmente comprende il “tempo mensa” (si vedano sul punto l’art. 6 del d.lgs. 13 aprile 2017, n. 63, art. 130, co. 2, d.lgs. n. 297/1994, art. 5 D.P.R. n.  89/2009, il D.M interministeriale 6 luglio 2010, n. 55 e il D.M. 3 novembre 2011), come ribadito dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione (ord. 11 marzo 2019) le quali hanno avuto modo precisare che “se il servizio mensa è compreso nel "tempo scuola", è perché esso condivide le finalità educative proprie del progetto formativo scolastico di cui esso è parte, come evidenziato dalla ulteriore funzione cui detto servizio assolve, di educazione all'alimentazione sana. […] Alla suddetta finalità educativa concorre quella di socializzazione che è tipica della consumazione del pasto "insieme", cioè in comunità […] al rafforzamento delle attitudini all'interazione sociale”.

Ne deriva, trattandosi di “tempo scuola”, che non possa essere negata agli allievi non aderenti al servizio mensa la dovuta sorveglianza, cosa che, peraltro, violerebbe le prescrizioni normative in merito (sul punto si segnalano l’art. 7 del D. Lgs. n. 59/2004, la circolare n. 29/2004 nonché l’art. 131 del T.U. d’Istruzione). Relativamente a tale aspetto la pregevolissima sentenza del Consiglio di Stato in commento sottolinea come la vigilanza durante il “tempo mensa” debba essere affidata al personale insegnante considerando che, trattandosi di modulo obbligatorio con quattro rientri settimanali, non può che ricomprendersi nell’orario scolastico nel suo complesso anche quello dedicato alla refezione pregno, come già descritto, di spunti educativi e formativi per l’alunno. Diversamente opinando, come sapientemente precisa il Consiglio di Stato, vi sarebbe una ingiustificata limitazione delle libertà individuali.

A tali conclusioni non possono opporsi deduzioni circa la necessità di separare i discenti che scelgono l’autorefezione da coloro che, invece, scelgono la mensa scolastica per ragioni di organizzazione del personale scolastico in quanto, come ben osserva il provvedimento in commento, gli spazi dedicatati alla mensa se sono sufficienti per coloro che utilizzano i servizi collettivi sono sufficienti anche per coloro che liberamente scelgono di non utilizzarli.

Allo stesso modo non appaiono richiamabili argomentazioni circa i rischi igienico sanitari, sui quali l’ammirevole pronuncia in analisi ha avuto modo di argomentare che, anche in ragione del delicato momento storico e dell’emergenza epidemiologica ormai in atto da un anno, si dovranno riorganizzare in maniera più attenta anche i servizi di mensa e che, invero, la soluzione proposta dai ricorrenti di far consumare ai discenti pasti ad esclusiva preparazione dei genitori, sicuramente potrebbe essere vantaggiosa e assicurare maggiormente, proprio da un punto di vista igienico e sanitario, una piena tutela dei bambini.

Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2 dicembre 2020 n. 7640

Diritto allo studio e tutela cautelare.
Pubblicato in Istruzione
Mercoledì, 10 Luglio 2019 13:20

Diritto allo studio e tutela cautelare.

Diritto allo studio e tutela cautelare

(glosse e riflessioni alla sentenza T.A.R. Lazio, Sez. III, 14 giugno 2019, n. 4007)

Sommario: 1. Premesse -2. Il fondamento normativo, l’odierno sistema e la delega di cui all’art. 5, comma 1, lett. a) della L. 30 dicembre 2010 n. 240 –3. Spunti di riflessione proposti dalla decisione cautelare del T.A.R. Lazio in tema di tutela cautelare.

 

1.      Merito, accesso al sapere e diritto allo studio: temi quanto mai attuali visti i nuovi obiettivi legislativi condensati nella c.d. riforma del sistema universitario e il sempre fervente dibattito, per la verità più sociale, politico e culturale che giuridico, sull’attuale sistema di accesso alla conoscenza presso taluni corsi di laurea. Codesti, però, sembrano voler rimanere tali ancora per poco, giacchè la tendenza, che alcuni Atenei[1] hanno già messo sul campo, appare andare proprio nella direzione dell’accesso programmato generale dell’insegnamento universitario non più e non solo per le discipline delle professioni sanitarie, della Medicina, dell’Odontoiatria, della Veterinaria, dell’Architettura, delle Scienze della formazione e delle specializzazioni post laurea.

         Un dibattito, pertanto, vivissimo ed attualissimo che sembra non interessare soltanto studenti e famiglie nell’estate più bella del post adolescenza, quella del diploma intendo, ma che muove con sempre maggiore spinta le coscienze di tutti  gli osservatori, riempie le pagine dei giornali, scomoda il medico del Premier e affolla i talk show.

2.      Ma andiamo con ordine. E cerchiamo di capire, in primis, perché in Italia l’accesso a taluni corsi di laurea è a numero programmato.

Tutto comincia qualche anno prima della L.n. 264/99 quando con L.n. 127/1997[2] viene attribuito il potere all’allora Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, di determinare la limitazione degli accessi ad alcuni corsi universitari. Secondo diversi T.A.R.[3] la norma presentava profili di dubbia costituzionalità in ragione del fatto che “conferisce al Ministro il potere di determinare la limitazione degli accessi all'istruzione universitaria, senza alcuna previa fissazione dei principi generali della disciplina, ma addirittura attribuendo al Ministro stesso il compito di definire, con l'ausilio di altro organo della pubblica amministrazione e cioè il Consiglio universitario nazionale, quei criteri generali per la regolamentazione dell'accesso. La violazione del principio della riserva di legge comporterebbe in tal modo anche la violazione del principio della tutela del diritto allo studio, di cui agli artt. 33 e 34 della Costituzione”.

         La Corte Costituzionale[4], chiamata l’anno successivo a pronunciarsi sulla questione, salva il modello ritenendo che “in considerazione degli obblighi comunitari e nei limiti in cui essi sussistono, non sia fondato lo specifico dubbio di costituzionalità sollevato dai giudici rimettenti circa la legittimità costituzionale della previsione del potere ministeriale di limitare gli accessi universitari”.

In realtà, è forse meglio chiarirlo sin da subito, nessuna norma comunitaria impone agli Stati membri la formazione universitaria a numero chiuso limitandosi, in virtù del principio di reciproco riconoscimento dei titoli di studio, ad onerarli a garantire standard di formazione adeguata. Gli “obblighi comunitari (…) nei limiti in cui essi sussistono”, cui si riferisce la Consulta, pertanto, sono sempre da ritenersi immanenti al fine di ben formare gli studenti, sì da fargli ottenere un titolo che, in maniera quanto più possibile veritiera, dimostri di rappresentare il bagaglio di conoscenze che lo Stato mira a conferirgli.

         La Corte, però, non si lascia sfuggire l’occasione per invitare il legislatore a riorganizzare la materia che “necessita di un'organica sistemazione legislativa, finora sempre mancata: una sistemazione chiara che, da un lato, prevenga l'incertezza presso i potenziali iscritti interessati e il contenzioso che ne può derivare e nella quale, dall'altro, trovino posto tutti gli elementi che, secondo la Costituzione, devono concorrere a formare l'ordinamento universitario”.

Proprio da quest’assist nasce la L.n. 264/99[5] che compone l’attuale sistema di norme sul quale è basato l’accesso programmato ad alcuni corsi di laurea e ad alcune delle specializzazioni post laurea.

La ratio dell’intera struttura normativa, sembra potersi ricondurre alla volontà del Legislatore di pianificare le immatricolazioni sulla base di criteri stabiliti ex ante che rendano solo eventuale la compressione del diritto allo studio. Solo innanzi ad un’effettiva carenza di strutture idonee a consentire “standard formativi tali da richiedere il possesso di specifici requisiti”, infatti, si dovrà gioco forza attivare quel sistema, rivelatosi poi assai oneroso e criticatissimo, di “ammissione agli atenei previo superamento di apposite prove di cultura generale, sulla base dei programmi della scuola secondaria superiore, e di accertamento della predisposizione per le discipline oggetto dei corsi medesimi”. Il Legislatore del ’99, pertanto, non aveva escluso affatto che fosse il sistema universitario ad adeguare i propri standard, le proprie strutture e le proprie risorse, anche umane, al fine di garantire alla frattanto crescente pletora di aspiranti matricole di accedervi senza necessariamente lotte fratricide in partenza, fu solo l’esperienza sul campo che, a tale estrema, e non sempre genuina, competizione, giunse.

La determinazione annuale del numero dei posti a livello nazionale per l’iscrizione ai corsi di cui si è fatto cenno, viene effettuata con decreto ministeriale “sulla base della valutazione dell’offerta potenziale del sistema universitario, tenuto anche conto del fabbisogno di professionalità del sistema sociale e produttivo[6]; i posti vengono ripartiti tra le Università, con decreto ministeriale, “tenendo conto dell’offerta potenziale comunicata da ciascun ateneo e dell’esigenza di equilibrata attivazione dell’offerta formativa sul territorio[7].

La valutazione dell’offerta potenziale, al fine di determinare i posti disponibili, è effettuata avuto riguardo a diversi parametri inerenti le strutture (aule, laboratori, etc..) e le professionalità (docenti, ricercatori, tutor, etc..) di Ateneo[8] ed avviene con cadenza annuale a mezzo di atti di programmazione dell’offerta formativa normalmente cristallizzati in deliberazioni del Consiglio di Facoltà poi ratificate dagli organi accademici di governo[9].

In sostanza, il complesso e articolato procedimento di individuazione “dell’offerta potenziale del sistema universitario”, è caratterizzato da un ragionato raccordo tra M.I.U.R. e singole Università onde garantire che la determinazione ministeriale del numero dei posti disponibili presso i vari Atenei sia frutto di un’adeguata istruttoria svolta a livello locale.

Al M.I.U.R. spetterà, invece, il compito di coordinare i “numeri” provenienti dai singoli Atenei anche avuto riguardo al “fabbisogno di professionalità del sistema sociale e produttivo”. In tale ambito il Ministero riceve prima la stima delle necessità inerenti tali professionalità dalle singole Regioni e poi la compara e la coordina, in sede di tavolo tecnico, con le stime circa il fabbisogno delle medesime proveniente dai Ministeri competenti[10] che, peraltro, in sede di conferenza per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome, dovrebbero[11] formalizzare preventivamente un accordo sul fabbisogno. Il “Tavolo tecnico”, oltre che dalle rappresentanze ministeriali, è composto[12] da esponenti delle categorie di professionisti formatisi nei medesimi corsi di laurea, i quali, almeno secondo l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato[13], hanno un interesse concorrenziale del tutto opposto all’allargamento delle maglie di tale sistema.

Una volta acquisiti tali dati il Ministero, che già in precedenza aveva dettato le “modalità e i contenuti delle prove di ammissione ai corsi ad accesso programmato a livello nazionale”[14],“definisce”, sempre con proprio decreto, i posti disponibili per l’accesso ai singoli corsi di laurea per ciascun Ateneo, privati compresi.

Di lì a qualche mese, storicamente nei primi giorni di settembre, si celebrano le prove di ingresso presso le singole Università che avranno il precipuo compito di assicurare la regolarità dello svolgimento del concorso apprestando ogni garanzia al fine del rispetto della normativa ministeriale. Il contenuto[15] dei test a risposta multipla[16] somministrati è anch’esso appannaggio del Ministero che provvede a predisporli affidandosi ad una Commissione di esperti all’uopo incaricata di redigere due[17] distinte prove per ogni corso di laurea programmato a livello nazionale.

La correzione delle prove torna ad essere centralizzata ed è affidata al Cineca[18] che provvede alla lettura ottica dei questionari e di seguito ne pubblica i risultati in forma anonima. Saranno ancora i singoli Atenei, invece, a concludere il complesso procedimento con la formazione delle graduatorie a seguito dell’abbinamento dell’anagrafica dei singoli candidati rimasta in proprio possesso ed i codici di correzione provenienti dal Cineca.

Non vi è, invece, almeno allo stato, alcun riconoscimento della carriera scolastica pregressa[19], né alcun colloquio attitudinale[20] volto a verificare, in maniera un pò più attinente rispetto all’aridità del test, se questo o quel candidato sembri risultare più o meno idoneo per questo o quel corso di laurea.

La Legge 30 dicembre 2010, n. 240 si propone, tra l’altro, di riformare anche la materia dell’accesso al sapere attraverso la delega conferita al Governo per “la realizzazione di opportunità uniformi, su tutto il territorio nazionale, di accesso e scelta dei percorsi formativi”[21].

Si tratta, dunque, di una delega in bianco che, sembra l’unico riferimento su cui potersi basare, dovrebbe ispirarsi ai principi cardine (art. 1, comma 3) della stessa L.n. 240/2010 e, tra questi, certamente al merito parola ricorrente per ben dieci volte all’interno dei 29 articoli.

In Parlamento, per la verità, praticamente senza soluzione di continuità, in tanti hanno provato a lanciare delle proposte più o meno articolate volte a ridisegnare l’attuale sistema di accesso ai corsi di laurea a numero programmato[22]. L’attuale delega, tuttavia, nonostante in qualche caso si trattasse di importanti e ragionati disegni di legge[23], non sembra volerne fare tesoro. Solo quando cominceranno a circolare le prime bozze, pertanto, potremmo comprendere su quale via il Legislatore vorrà incamminarsi.

3. Il caso vagliato dal T.A.R. Lazio riguarda la concessione della tutela cautelare nell’ambito di tali concorsi.

Secondo il T.A.R. “la richiesta di ammissione con riserva deve ritenersi inammissibile, essendo peraltro in parte già avvenuta, in parte imminente o comunque preordinata – ex art. 55 comma 10 c.p.a. – la trattazione nel merito di casi analoghi”. Le ragioni sopra esposte”, continua il T.A.R., “sembrano imporre una anche più ampia riflessione, circa l’ammissibilità di misure cautelari propulsive nella materia di cui trattasi (…)”, giacchè “si deve tenere conto, infatti, dell’ingente (…) tasso di crescita del contenzioso, proporzionale alla facilità di accesso ai corsi in via cautelare: costituisce fatto notorio la disposta immatricolazione con riserva e in soprannumero, in anni accademici precedenti, di migliaia di aspiranti, il cui numero risultava in costante crescita, fino ad un più restrittivo indirizzo cautelare del giudice amministrativo, il cui prudente apprezzamento ha, negli ultimi tempi, evitato l’incontrollato sovraffollamento dei corsi universitari in questione, garantendo anche più ragionevoli possibilità di accesso alle scuole di specializzazione e, in ultima analisi, il mantenimento del livello qualitativo del servizio sanitario nazionale (non potendo le carenze di personale medico – pur ipotizzabili – trovare soluzione in via cautelare, in assenza di adeguati investimenti finanziari e strutturali)”.

Si tratta, a ben vedere, di un vero e proprio manifesto contro il contenzioso inerente il diritto allo studio volto a spostare ad anni successivi, quando verosimilmente tutti o quasi avranno perso interesse allo stesso, pur di non consentire un ingente “tasso di crescita del contenzioso, proporzionale alla facilità di accesso ai corsi in via cautelare”.

4.A parere di chi scrive, tuttavia, differenza di quanto ritenuto dal T.A.R. il periculum non è affatto escluso dalle ragioni sopra addotte. Ragioni che, a ben vedere, mirano, dichiaratamente, ad escludere che si verifichi un tasso di crescita del contenzioso, proporzionale alla facilità di accesso ai corsi in via cautelare”.

A fronte di una valutazione della domanda cautelare e dei suoi presupposti che, essendo in gioco il diritto allo studio costituzionalmente garantito è sempre, da un ventennio, stata condotta, ritenendo, a fronte di elementi di fumus, “in via cautelare garantito, allo stato, il proficuo inizio e svolgimento del corso di studi (… ) ordinando all’Ateneo di immatricolare l’appellante al corso di laurea in medicina chirurgia presso la stessa Università” (cfr. solo da ultimo ordd. nn. 1872 e 1879/19 citate anche dalla successiva giurisprudenza della Sezione – 23 maggio 2019, n. 2579/19).  E ciò, sin dalla fase monocratica ove si è, da sempre, ritenuto che, a fronte di elementi di fumus, vi sono ragioni di somma ed indifferibile urgenza, sia perché sono in corso le attività didattiche relative al corso di laurea in medicina e chirurgia, per il quale vige il regime delle presenze obbligatorie, pena l’impossibilità per lo studente di sostenere i relativi esami di profitto, sia perché sono in fase di svolgimento i previsti scorrimenti della graduatoria (cfr. l’allegato n. 2 del D.M. del MIUR m_pi.R.0000277.28-03-2019)” (da ultimo decreto 27 aprile 2019, n. 2135, Pres. Santoro; già prima decreto n. 5953/14 Pres. Baccarini; n. 13/15 Pres. Giovagnoli; 2040/16 Pres. Santoro).

5.La non trattazione della cautelare, di fatto, sposterebbe di almeno un anno la delibazione della domanda rendendo sostanzialmente inutile la stessa esistenza del giudizio e l’interesse alla sua proposizione e coltivazione. Proprio sul tema si è perfino espressa la Corte Costituzionale. “Il diritto allo studio comporta non solo il diritto di tutti di accedere gratuitamente alla istruzione inferiore, ma altresì quello - in un sistema in cui “la scuola è aperta a tutti” (art. 34, primo comma, della Costituzione) - di accedere, in base alle proprie capacità e ai propri meriti, ai “gradi più alti degli studi” (art. 34, terzo comma): espressione, quest'ultima, in cui deve ritenersi incluso ogni livello e ogni ambito di formazione previsti dall'ordinamento. Il legislatore, se può regolare l'accesso agli studi, anche orientandolo e variamente incentivandolo o limitandolo in relazione a requisiti di capacità e di merito, sempre in condizioni di eguaglianza, e anche in vista di obiettivi di utilità sociale, non può, invece, puramente e semplicemente impedire tale accesso sulla base di situazioni degli aspiranti che - come il possesso di precedenti titoli di studio o professionali - non siano in alcun modo riconducibili a requisiti negativi di capacità o di merito. A tale diritto si ricollega altresì quello di aspirare a svolgere, sulla base del possesso di requisiti di idoneità, qualsiasi lavoro o professione, in un sistema che non solo assicuri la “tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35, primo comma, della Costituzione), ma consenta a tutti i cittadini di svolgere, appunto “secondo le proprie possibilità e la propria scelta”, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società (art. 4, secondo comma, della Costituzione): ciò che a sua volta comporta, quando l'accesso alla professione sia condizionato al superamento di un curriculum formativo, il diritto di accedere a quest'ultimo in condizioni di eguaglianza. Il diritto di studiare, nelle strutture a ciò deputate, al fine di acquisire o di arricchire competenze anche in funzione di una mobilità sociale e professionale, è d'altra parte strumento essenziale perché sia assicurata a ciascuno, in una società aperta, la possibilità di sviluppare la propria personalità, secondo i principi espressi negli artt. 2, 3 e 4 della Costituzione” (C. Cost., 29 maggio 2002, n. 219).

Verrebbe meno, inoltre, ogni tutela al principio di effettività della tutela.

Se, difatti, sol per la complessità delle questioni dedotte (e la mancanza di collaborazione del MIUR che ha omesso di depositare gli atti di concorso), si volesse eliminare ogni possibilità, in concreto, di tutela cautelare, non potrà che convenirsi che verrebbe meno il principio di effettività della tutela.

La misura cautelare, peraltro, in tali casi, riesce ad allineare le posizioni facendo giungere, tutti, ammessi ed esclusi su quel singolo vizio, con la res adhuc integra sino al merito cosicchè, in ipotesi di accoglimento, si possa evitare l’annullamento consolidando, esclusivamente, la posizione dei ricorrenti o, al contrario, giungendo ad un annullamento che, comunque, coinvolga tutti e non solo gli ammessi. Ove si ritenga di annullare, dunque, esclusi (illegittimamente) e ammessi (anche essi illegittimamente) subiranno la stessa sorte grazie alla decisione, nelle more, di tale decisione.

La mancata concessione della cautelare, spostando a meriti lontani la delibazione, inoltre, incide, negativamente, sulla necessità che esista un controllo costante dell’agere dell’amministrazione in settori così sensibili facendo, progressivamente, venire meno l’interesse concreto all’azione dei soggetti lesi stante una prospettiva eccessivamente diluita nel tempo dell’esito del contenzioso. Il premio dell’effettività della tutela concretizzatosi nell’ammissione cui la giurisprudenza è approdata, pertanto, appare anche il frutto del ruolo di “sentinella” che l’ordinamento conferisce al cittadino concorrente senza il quale, probabilmente, mancherebbe qualunque controllo non solo da parte del G.A. ma anche da parte di altri organi a ciò deputati.

5.Com’è noto il G.A. ha mostrato, da ormai qualche decennio[24], non contestabile volontà ad accordare, su una particolare categoria di atti negativi, quale è quella dei dinieghi di ammissione ad un pubblico concorso, la tutela cautelare richiesta proprio nella forma dell’ammissione con riserva[25]. Trattasi di un orientamento conforme all’esigenza costituzionale di assicurare effettiva - e non effimera - tutela giurisdizionale agli interessi legittimi pretensivi anche nella fase cautelare del giudizio amministrativo[26], attraverso strumenti diversi e ampiamente eccedenti la pura e semplice paralisi degli effetti formali dell’atto impugnato (ormai legittimati dalla L. n. 205/2000), e quindi, innanzi tutto, attraverso l’imposizione all’amministrazione, con misure cautelari di tipo ordinatorio e propulsivo, di determinati comportamenti considerati necessari per la realizzazione della tutela giurisdizionale[27]

L’ammissione con riserva rappresenta, infatti, la trasposizione nell’ordinamento processuale di un istituto cautelare - tipico delle procedure concorsuali - già “esistente nell’ordinamento sostanziale, secondo cui l’ammissione con riserva di un candidato non è idonea a pregiudicare in alcun modo l’interesse dell’amministrazione, che sarebbe invece leso dalla mancata cautela laddove il ricorso risultasse poi fondato, perché ne deriverebbe la necessità della reiterazione dell’intero procedimento concorsuale”[28].

Avv. Santi Delia 

 



[1]È il caso, ad esempio, dell’Ateneo di Catania che, per la prima volta, dall’anno accademico 2010/11, ha imposto il numero programmato per ogni corso di laurea di ciascuna facoltà, da Giurisprudenza a Medicina, da Architettura a Scienze Politiche.

[2]L’art. 17, comma 116 della L. 15 maggio 1997, n. 127, ha modificato l’art. 9, comma 4, della L. 19 novembre 1990, n. 341 che, successivamente all’intervento del legislatore del 1997, così disponeva “Il Ministro dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica definisce, su conforme parere del CUN, i criteri generali per la regolamentazione dell'accesso alle scuole di specializzazione ed ai corsi universitari, anche a quelli per i quali l'atto emanato dal Ministro preveda una limitazione nelle iscrizioni”.

[3]T.A.R. Lazio, Sez. III, ord. 29 ottobre 1997, n. 2368 in G.U., prima serie speciale, 18 febbraio 1998, n. 7; ord. 22-29 ottobre 1997, n. 190 (reg. ord. di promovimento) in G.U., prima serie speciale, 1 aprile 1998, n. 13; ord. 22-29 ottobre 1997,  n. 323 (reg. ord. di promovimento) in G.U., prima serie speciale, 13 maggio 1998, n. 19; T.A.R. Liguria, Sez. II, ord. 18 dicembre 1997 - 29 gennaio 1998, n. 15/1998 in G.U., prima serie speciale, 20 maggio 1998, n. 20; ord. 18 dicembre 1997 - 29 gennaio 1998, n. 13/1998 in G.U., prima serie speciale, 27 maggio 1998, n. 21; T.A.R. Marche, Sez. I, 11-26 marzo 1998, nn. 440 e 441 in G.U., prima serie speciale, 10 giugno 1998, n. 23; T.A.R. Abbruzzo, Sez. I, 3 dicembre 1997, n. 621 in G.U., prima serie speciale, 1 aprile 1998, n. 13.

[4]Sentenza 23-27 novembre 1998, n. 383, in cortecostituzionale.it, www.cortecostituzionale.it.

[5]Legge 2 agosto 1999, n. 264, in G.U. 6 agosto 1999, n. 183, rubricata “Norme in materia di accessi universitari”.

[6]Art. 3, comma 1, lett. a), L. n. 264/99.

[7]Art. 3, comma 1, lett. b), L. n. 264/99.

[8]Cfr. art. 3, comma 2, L.n. 264/99, secondo cui la valutazione dell’offerta potenziale tiene conto “a) dei seguenti parametri: 1) posti nelle aule; 2) attrezzature e laboratori scientifici per la didattica; 3) personale docente; 4) personale tecnico; 5) servizi di assistenza e tutorato; b) del numero dei tirocini attivabili e dei posti disponibili nei laboratori e nelle aule attrezzate per le attività pratiche, nel caso di corsi di studio per i quali gli ordinamenti didattici prevedono l’obbligo di tirocinio come parte integrante del percorso formativo, di attività tecnico-pratiche e di laboratorio; c) delle modalità di partecipazione degli studenti alle attività formative obbligatorie, delle possibilità di organizzare, in più turni, le attività didattiche nei laboratori e nelle aule attrezzate, nonché dell’utilizzo di tecnologie e metodologie per la formazione a distanza”.

[9]Senato Accademico o Consiglio di Amministrazione a seconda dello Statuto.

[10]Nel caso delle professioni sanitarie che, allo stato rappresentano la fetta più importante ove si consuma l’imbuto all’accesso, tale stima è proposta dal Ministero della Salute.

[11]Il condizionale è dovuto al fatto che, negli ultimi anni, i Decreti Ministeriali di definizione dei posti disponibili per ammissioni corso di laurea magistrale sono stati sovente adottatisenza che tale accordo fosse stato siglato e, quindi, anche se “alla data del presente decreto la rilevazione effettuata dal Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali ai sensi dell'art.6 ter del D.L.gs. n.502/1992 e successive modifiche non si è ancora tradotta in Accordo formale in sede di Conferenza per il rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome”, in ragione della “necessità di emanare il presente decreto per consentire la pubblicazione del bando di concorso da parte degli Atenei nel rispetto di quanto disposto dall'art.4, comma 1, della richiamata legge” così D.M. 3 luglio 2009, in G.U. 16 luglio 2009.

[12]Il c.d. Tavolo o Gruppo tecnico è insediato presso il Ministero dell'Istruzione, Università e Ricerca ai fini della programmazione dei corsi universitari e vi fanno parte i rappresentanti del Ministero del Lavoro, Salute e Politiche Sociali, della Conferenza per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome, del Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario, dell'Osservatorio delle Professioni sanitarie, i Presidenti delle Conferenze dei Presidi delle Facoltà di Medicina e Chirurgia e di Medicina Veterinaria, della Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri e della Federazione degli Ordini dei Veterinari Italiani.

[13]Deliberazione 21 aprile 2009, in bollettino AGCM n. 15/2009.

[14]Per il corrente anno accademico si veda D.M. 18 giugno 2010.

[15]È proprio su tale aspetto che il dibattito sembra essere più vivace attesto che, secondo molti, una prova così congegnata, risultando assai nozionistica, non riesce a selezione in maniera effettiva i migliori ed i più aspiranti al corso di laurea per cui si concorre.

[16]In merito alla contestazione della scelta del criterio di selezione fondato unicamente ed essenzialmente sulla prova espletata attraverso il sistema del quiz a risposta multipla la giurisprudenza ha per lo più avallato la scelta in tal senso indirizzata da parte ministeriale. La Legge, in particolare, nulla dice sul punto ragion per cui tale scelta è stata compiuta esclusivamente in sede amministrativa ricevendo, tuttavia, il placet del G.A. Tra le tante può ricordarsi il pensiero del T.A.R. Lazio, secondo cui “il metodo adoperato non sia obiettivamente illogico o inadeguato allo scopo, considerato il contesto particolare in cui esso va a collocarsi, nonché l'elevato numero dei candidati che debbono essere selezionati con metodi oggettivi, imparziali e rapidi. Per tali ragioni la suddetta doglianza è stata ritenuta del tutto infondata. A tal proposito è doveroso ricordare ancora una volta che il Legislatore con l'art. 4 della L. n. 264/1999 ha stabilito che l'ammissione ai corsi è disposta dagli atenei previo superamento di apposite prove di cultura generale, sulla base dei programmi della scuola secondaria superiore, e di accertamento della predisposizione per le discipline oggetto dei corsi medesimi, con pubblicazione del relativo bando almeno sessanta giorni prima della loro effettuazione, garantendo altresì la comunicazione dei risultati entro i quindici giorni successivi all'espletamento delle prove stesse, senza che sia minimamente considerato ai fini dell'ammissione ai corsi universitari l'esito degli esami di maturità dei candidati” (Sez. III bis, 27 luglio 2005, n. 3061). Più recentemente si veda T.A.R. Lazio, Sez. III bis, 11 marzo 2009, n. 2443, secondo cui “la stessa legge, che disciplina una procedura selettiva basata su test a risposta multipla non può ritenersi in contrasto con la normativa comunitaria che contiene un mero obbligo di risultato consistente nella predisposizione di misure adeguate a garantire la qualità teorica e pratica dell’apprendimento lasciando liberi i singoli Stati di individuare gli strumenti giuridici più adatti per conseguirlo”.

[17]Una verrà somministrata e l’altra, invece, verrà usata ove dovesse verificarsi l’ipotesi di ripetizione della prova a seguito di eventuale annullamento di quella già celebrata. Si ricorderà, per il gran clamore mediatico che ne seguì, quanto accadde presso gli Atenei di Catanzaro e Bari durante le prove per l’accesso al Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia per l’anno accademico 2007/2008. A Catanzaro la prova venne ripetuta a seguito della denuncia del Rettore di Ateneo riguardante l’accertata manomissione  dei plichi nel giorno precedente l’esame. A Bari, invece, la prova già celebrata prima annullata dall’Ateneo, fu salvata dal T.A.R. e vennero solo esclusi alcuni studenti sorpresi ad usare apparecchi telefonici collegati con l’esterno. Tutt’ora a rischio annullamento, invece, sono le prove celebrate nel settembre 2010 presso gli Atenei di Firenze, ove si dimenticò di togliere dagli arredi di due aule di concorso la tavola periodica degli elementi chimici grazie alla quale i candidati ivi presenti avrebbero potuto trovare giovamento nella risoluzione di alcuni dei test somministrati, e Messina, ove i candidati vennero identificati sin dall’ingresso alla prova non solo mediante le proprie generalità ma anche attraverso l’abbinamento del codice segreto attribuito a ciascun candidato proprio al fine di garantire l’anonimato e la segretezza della prova. Su tali casi si veda in giurisprudenza T.A.R. Puglia, Bari,Sez. III, 26 ottobre 2007, n. 2636; T.A.R. Toscana, Firenze, Sez. I, 20 ottobre 2010, n. 927; T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. I, 23 ottobre 2010, n. 612.

[18]Statisticamente di poco conto, seppur evidentemente rilevanti per i singoli candidati sfortunatamente coinvolti, sono gli incidenti in fase di correzione. L’odierno meccanismo di selezione è, infatti, caratterizzatodalla peculiare situazione per cui esiste un solo elaborato in originale che viene consegnato dapprima alla Commissione di Ateneo, in seguito al CINECA per la correzione automatizzata, successivamente torna all’Ateneo ove viene abbinata all’anagrafica che sempre è rimasta in possesso della Commissione di Ateneo. Il candidato, dunque, avrà scarse possibilità di contestare la paternità dell’elaborato che la Commissione gli attribuirà giacchè assolutamente spuntati sono gli strumenti che questi ha a disposizione per contestare l’apposizione, o meno, di una crocetta sul proprio compito. Ove tuttavia il candidato si trovi innanzi ad evidenti errori nell’attribuzione del punteggio, potrà verificarne l’eventuale scambio della stessa con quella di altri concorrenti e, in tal caso, chiedere la rettifica del punteggio. Sul punto, proprio in punto di paternità dell’elaborato, si veda T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. I, ord. 23 febbraio 2010, n. 265; 19 luglio 2010, n. 931.

[19]A partire dal 2012, sempre che frattanto non si eserciti la delega contenuta nella c.d. riforma Gelmini, alla carriera scolastica verrà attribuito un peso di ben 10 punti ex art. 4 del D. Lvo. n. 21/2008. Per il corrente anno accademico (D.M. 18 giugno 2010), viceversa, tiene in considerazione il voto di diploma solo in termini assolutamente residuali. In caso di parità di voti, prevale in ordine decrescente, il punteggio attenuto dal candidato nella soluzione (rispettivamente) dei quesiti relativi agli argomenti di cultura generale e ragionamento logico, biologia, chimica, fisica e matematica. In caso di ulteriore parità a prevalere è il candidato con più alta votazione dell’esame di Stato conclusivo dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore e, in caso di ulteriore parità di voti, il più giovane anagraficamente.

[20]Tale metodo di selezione, unitamente alla prova selettiva, è solitamente usato in tutti gli Atenei privati. Questi, pur risultando vincolati in punto di istruttoria in merito al numero di ammissibili, godono di assoluta autonomia in relazione alle modalità di espletamento delle selezioni. L’esperienza, tuttavia, non sembra certo dare confortanti risultati circa l’idoneità di tale strumento quale correttivo degli esiti del test consistendo, invece, in un neanche troppo celato sistema di controllo degli ingressi presso tali prestigiosi Istituti di eccellenza. Tra i pochi riscontri in giurisprudenza, proprio sulla c.d. prova orale imposta da un Ateneo privato, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III bis, 12 gennaio 2011, n. 39, secondo cui “considerato che su tale collocazione ha influito il giudizio del “colloquio orale”redatto dall’apposita Commissione, il quale non appare privo di incongruenze laddove, in sede di “considerazioni e commenti”, si fa riferimento a difficoltà nella valutazione del ricorrente, in assenza di “informazione curriculare del ricorrente”, mentre questi ha documentato nella c.d. “scheda anagrafica del candidato”, il proprio percorso scolastico (maturità scientifica conseguita con 100/100 nell’a.s. 2009/2010), i titoli di studio conseguiti e la posizione dei propri familiari; Considerato peraltro che il giudizio della Commissione, nel valutare la personalità del ricorrente, ne accentua gli aspetti individualistici, in dissonanza con le note autobiografiche del ricorrente, nelle quali si riferisce dell’impegno di quest’ultimo “in azioni di volontariato svolte in modo non sporadico e l’avere dimostrato desiderio di aiutare il prossimo bisognoso o sofferente”.

[21]Cfr. art. 5, comma 1, lett. a), L.n. 264/99.

[22]Solo i più recenti, M.P. Garavaglia, disegno di legge n. 1943, in senato.it, www.senato.it, volto principalmente all’introduzione di una graduatoria unica nazionale; B.F. Fucci e altri, disegno di legge n. 220, in camera.it, www.camera.it, con il quale si mira all’introduzione di test di accesso effettuati in base a criteri che premino il merito e che la valutazione tenga conto della pregressa carriera scolastica.

[23]Ci si riferisce, in particolare, a quello, n. 2218, in camera.it, www.camera.it, dell’On.le P. Picierno, n. 2218,  con il quale, preso atto dell’assoluta inadeguatezza del metodo di selezione a mezzo test a risposta multipla anche in ragione della cronica incapacità della varie commissioni che, di anno in anno, vengono incaricate della redazione degli stessi, di riuscire a formularne 80 privi di errori, mancanze o imperfezioni e della necessità di eliminare tutti quei corsi di laurea c.d. “parcheggio” nell’attesa di poter ritentare il test che non si è riusciti a superare, si mira ad invertire la tendenza onerando gli Atenei a fornire essi, in primis, una più corretta e pronta risposta alla crescente domanda studentesca cui dovrà essere assicurato quello standard di insegnamento e nozioni imposto a livello comunitario. Tali obiettivi, secondo il disegno di legge, vanno perseguiti attraverso lo strumento dell’orientamento al fine di indirizzare gli studenti verso il percorso formativo più adatto alle loro inclinazioni e capacità personali. La prova selettiva, grazie alla fusione o all’uniformazione dei programmi di studio di spesso inutili corsi di laurea brevi trasformati in aree parcheggio di quello cui non si è riusciti ad accedere, è spostata alla fine del primo anno di corso e verte sugli insegnamenti in programma in tale anno e sui risultati al momento conseguiti. Per i corsi di area non medica le restrizioni di acceso sono invece sostituite dalla possibilità di negare l’iscrizione ad anni successivi prima del superamento di tutti gli insegnamenti previsti al primo.

[24]Si vedano, tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, ordd. 30 dicembre 1966, nn. 184 e 185; T.A.R. Lazio, Sez. III, ord. 7 marzo 1977, n. 93; T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. III, ordd. 14 settembre 1993, n. 802 e 29 settembre 1993, n. 929; Cons. Stato, Sez. VI, ord. 28 settembre 1999, nn. 1769; T.A.R. Campania, Sez. VIII, ord. 8 ottobre 2007, n. 3234; T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, ordd. 24 ottobre 2007 nn. 479 e 480; Cons. Stato, Sez. VI, ord. 22 gennaio 2008, n. 293.

[25]Con le c.d. sospensive propulsive – anche attraverso il ricorso alla c.d. tecnica del remand– (figure che, in vero, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, nonché la Corte costituzionale avevano già radicato nell’ambito del sistema materiale del nostro ordinamento processuale amministrativo alcuni anni addietro)(così C. Contessa, Tutela cautelare e diritto comunitario: spunti ricostruttivi di un rapporto difficoltoso, Roma, 2008, 4, commentando la sentenza C.G.E.,25 luglio 1991, C 221/89, Factorame I).

[26]Così come espressamente richiesto anche dalla Corte costituzionale con le note pronunce n. 284/74 e n. 8/1982.

[27]In tal senso, Cons. Stato, Ad. Plen., ord. n. 14/83, in motivazione.

[28]C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo di legittimità e tutele cautelari, Padova, 2002, 197 ss.