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Pubblicato in Altri diritti

CARATTERI ED EVOLUZIONE DELLA FAMIGLIA DI FATTO: LA TUTELA POSSESSORIA DEL CONVIVENTE MORE UXORIO

by Dott.ssa Rossella Staine on28 Giugno 2015

Il nostro ordinamento difetta di una legge organica sulle coppie di fatto ma negli ultimi tempi la crescita esponenziale del fenomeno ha fatto sì che, a prescindere da un intervento legislativo ben preciso, si concretizzasse in ogni caso un nuovo concetto di “famiglia”, 

frutto in larga parte dell’interpretazione datane dalla giurisprudenza, la quale ha ravvisato nella convivenza more uxorio l’elemento fondante e caratterizzante di tale tipo di unione.  La differenza tra la famiglia legittima e quella di fatto poggia sulla celebrazione o meno del matrimonio: l’art. 29 Cost. sugella la famiglia fondata sul vincolo matrimoniale riconoscendone i diritti e stabilendo l’eguaglianza giuridica e morale dei coniugi. Il diverso pregio costituzionale goduto dalla famiglia legittima non esclude però che possa esservi una comparazione sotto molteplici aspetti. In assenza di un vincolo giuridico atto a consacrarla, per poter esservi “famiglia di fatto” è necessaria però la presenza di determinate caratteristiche: non basta difatti che sussista una mera coabitazione tra i partners, essendo fondamentale che vi siano i requisiti della comunione di vita, di interessi, di intenti, di affetti,  nonché dalla reciprocità di diritti e doveri, e che tale unione sia connotata dall’imprescindibile carattere della stabilità. L’assenza dell’atto tipico del matrimonio può essere surrogato da accordi o patti di convivenza ex art. 1322, comma 2, c.c., come già avviene in Germania, Francia, Svezia e nei paesi di Common Law, in modo da regolare i rapporti patrimoniali e personali dei conviventi per tutta la durata del menage (prevedendo ad esempio il versamento di una somma di denaro in caso di dissoluzione del rapporto, la ripartizione delle spese, la costituzione di un fondo monetario ad appannaggio dell’intero nucleo familiare di fatto costituitosi). Ne deriva che anche la famiglia di fatto così considerata possa trovare protezione nell’alveo dell’art. 2 della Costituzione, essendo anch’essa una “formazione sociale meritevole di tutela” e di rilevanza costituzionale: così connaturata, la differenza con la famiglia legittima poggerà unicamente, a ben vedere, sul momento costitutivo del vincolo, dissolvendosi, invece, nella fase dinamica dello stesso, essendo entrambe le tipologie di “famiglia” fondate su doveri di solidarietà e di sostegno reciproco che si manifestano nel dispiegarsi della vita comune. La giurisprudenza costituzionale ha espressamente contribuito ad allargare le maglie del concetto di “famiglia”, affermando che “un consolidato rapporto, ancorché di fatto, non appare - anche a sommaria indagine - costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (art. 2 Cost)” (sentenza n. 237/1986) e che “per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico” (sent. n. 138/2010). Su questa scia si inserisce la sentenza n. 404 del 1988 con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6 della legge sulla locazione d’immobili urbani del 27 luglio 1978, n. 392, ponendo il convivente more uxorio tra i successibili nella locazione nel caso del decesso del conduttore e stabilendo altresì che il convivente, affidatario di prole naturale, succedesse al conduttore che abbia cessato la convivenza. Difettando di una collocazione sistematica ben precisa, come poc’anzi ricordato, varie sono state le proposte della dottrina circa la qualificazione giuridica della convivenza more uxorio. Parte degli interpreti ha cercato di ricondurla nell’alveo della disciplina della famiglia di diritto, proponendo di applicarne analogicamente gli istituti. L’identità tra le due figure, per quanto ambita, non può tuttavia funzionalmente riscontrarsi, mancando il vincolo matrimoniale che della famiglia legittima rappresenta il fulcro. La dottrina maggioritaria ravvisa pertanto nei doveri di solidarietà e di assistenza, cui i conviventi more uxorio attengono, le caratteristiche di una obbligazione naturale ex art. 2034 c.c. e, conseguentemente, non è ammessa la ripetizione di qualsivoglia tipologia di indebito nel caso di rottura del rapporto.

Da ciò ne consegue che le elargizioni fatte dai conviventi durante il corso della loro unione siano spontanee e non coercibili, essendo questi i requisiti fondanti l’art. 2034 c.c. e, come tali, irripetibili. Ciò al contrario di quanto affermato dalla giurisprudenza più risalente, che qualificava le attribuzioni patrimoniali fatte da un convivente nei confronti dell’altro quali donazioni remuneratorie. La Suprema Corte ha pertanto enunciato il principio secondo cui “i doveri morali e sociali che trovano la loro fonte nella formazione sociale costituita dalla convivenza more uxoriorefluiscono […] sui rapporti di natura patrimoniale, nel senso di escludere il diritto del convivente di ripetere le eventuali attribuzioni patrimoniali effettuate nel corso o in relazione della convivenza” e ciò a patto che“possa riscontrarsi un rapporto di proporzionalità tra le somme esborsate ed i doveri morali e sociali assunti reciprocamente dai conviventi” ( Cass. Civ. sent. n. 1277/14; Cass. Civ. n. 3713/2003; Cass. Civ. n. 11330/2009).

Non sono mancati tuttavia negli ultimi decenni degli interventi legislativi, sebbene sparuti, frammentari e non organici, tali da condurre ad una, seppur abbozzata, equiparazione tra famiglia di fatto e di diritto. E’ di recente emanazione la legge n. 10.12.2012 n. 219 che ha eliminato in via definitiva qualsivoglia discriminazione tra figli legittimi e naturali; oppure si pensi all’art. 5 della L. 40/2004 che permette ai conviventi di ricorrere alla fecondazione artificiale; oppure ancora all’art. 6 della L. 184/83, secondo cui anche al di fuori della famiglia legittima può consolidarsi il requisito della stabilità laddove la coppia “abbia convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni”; ed infine l’art. 417 c.c. che consente alla persona convivente stabilmente di richiedere l’interdizione o la nomina di un amministratore di sostegno per il proprio compagno. Anche in materia penale a poco a poco la famiglia di fatto è stata “equiparata” a quella legittima in relazione a determinati istituti. Si pensi all’art. 199, comma 3, lett. A) c.p. che riconosce anche al convivente more uxorio la facoltà di astenersi dal testimoniare; o l’art. 572 c.p. sui maltrattamenti in famiglia, in cui estensivamente vi si ricomprende anche quella di fatto; o l’art. 680 c.p. che consente di proporre la domanda di grazia anche al convivente more uxorio; o ancora l’art. 342 bis e ter della L. 154/01 sugli abusi in famiglia, per cui anche la condotta del convivente more uxorio che determini un grave pregiudizio al nucleo familiare determina l’allontanamento di tale soggetto ed il conseguente obbligo di versare un assegno, nel caso in cui i familiari restino privi di mezzi adeguati al fine del loro sostentamento.

Tuttavia il ruolo determinante nel riconoscimento giuridico della famiglia di fatto continua ancora oggi ad essere giocato dalla giurisprudenza, che ha ricercato (e continua a ricercare) forme più alte di tutela. Innovative e decisive sono in particolare due sentenze del Supremo Consesso del 2013 e del 2014 che hanno avuto il pregio di estendere talune tipologie di azioni civili anche in capo al convivente more uxorio, ampliandone implicitamente i diritti.

Con la sentenza del 21 marzo 2013 n. 7214, la Suprema Corte si è interrogata circa la possibilità da parte del convivente estromesso clandestinamente o violentemente dal partner di esperire l’azione di spoglio per la reintegra nel possesso, anche nel caso in cui il convivente non abbia il diritto di proprietà sul bene immobile.

Il caso prende le mosse da una singolare vicenda concernente una coppia di conviventi e la vendita di un immobile di proprietà del compagno alla compagna, (ceduto con atto di compravendita) che diventerà l’abitazione in cui la coppia conviverà stabilmente. Dissoltasi l’unione, la donna costringe il compagno a lasciare l’abitazione sostenendo di essere stata vittima di un tentativo di furto e violazione di domicilio, chiamando i carabinieri che, una volta verificato il regolare possesso della donna, si fanno consegnare le chiavi dal convivente. Quest’ultimo agisce presso il Tribunale di Roma con un’azione di reintegrazione nel possesso dimostrando che, nonostante vi fosse stato un passaggio di proprietà in capo alla compagna, l’immobile era stato adibito ad abitazione di entrambi. A seguito di sentenza favorevole al convivente estromesso, la donna ricorre alla Corte d’Appello capitolina che conferma la decisione di primo grado, qualificando la situazione venutasi a creare come compossesso e non semplice detenzione dell’immobile, vista la continuazione della convivenza more uxorio anche dopo la compravendita. Si arriva pertanto in Cassazione la quale, nel confermare le decisioni di merito anzidette, svolge delle interessanti e innovative considerazioni.

In primo luogo la Suprema Corte distingue a chiare lettere i caratteri peculiari della convivenza more uxorio da quelli propri della relazione coniugale.

Mentre quest’ultima è connaturata da diritti e doveri reciproci che sorgono con il matrimonio ed è pertanto caratterizzata da stabilità e certezza, la convivenza more uxorio ha il suo fulcro nella “affectio” quotidiana, che, in quanto non “suggellata” da alcun vincolo giuridico, può essere revocabile in qualunque momento. Tale differenza, prosegue la Corte, non può certamente dispiegare i propri effetti sul rapporto intercorrente tra il convivente e la casa adibita ad abitazione comune. Anche nel caso di convivenza more uxorio, se alla base del rapporto risiede la scelta di coppia di vivere assieme e di instaurare un “consorzio familiare” coi caratteri della esclusività, della durata e della contribuzione, il rapporto che il convivente instaura con la res non può certo tradursi in mera ospitalità, giuridicamente irrilevante, ma bensì in un vero e proprio negozio a contenuto personale. Nel caso in cui il rapporto tra i conviventi si dissolva, il convivente proprietario non può estromettere violentemente o clandestinamente l’altro partner, essendo predominante anche in queste situazioni il principio di correttezza e buona fede costituzionalmente orientato ex art. 2 Cost.

Colui il quale abbia diritto a recuperare il possesso esclusivo dell’immobile dovrà pertanto provvedere ad avvisare prontamente il convivente, concedendogli un termine congruo per ricercare un’altra sistemazione.

La famiglia di fatto, in quanto compresa tra le formazioni sociali ex art. 2 Cost., per lo svolgimento della personalità individuale, rende il convivente titolare del godimento della casa familiare, di proprietà del proprio partner, soddisfacendo tale situazione un interesse proprio, oltre che della stessa coppia “sulla base di un titolo a contenuto e matrice personale la cui rilevanza sul piano della giuridicità è custodita dalla Costituzione, si da assumere i connotati tipici della detenzione qualificata”.

Il convivente “spossessato”, detentore qualificato, ha la piena legittimazione ad agire in reintegrazione ex art. 1168 c.c., poiché la “dissoluzione del menage” non dà al convivente il diritto di ricorrere alle vie di fatto per estromettere l’altro dall’abitazione.

La Corte prosegue affermando che la qualità di formazione sociale della convivenza more uxorio (così come ribadita nella sent. Cass., sez III, 19 giugno 2009, n. 14343) sia fonte di doveri morali e sociali di ciascun convivente nei confronti dell’altro, con l’effetto di:

1- escludere il diritto del convivente more uxorio di ripetere le eventuali attribuzioni patrimoniali effettuate nel corso della convivenza;

2-riconoscere il diritto del convivente al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale per la morte del compagno o della compagna provocata da un terzo;

3-dare rilevanza alla convivenza intrapresa dal coniuge separato o divorziato ai fini dell’assegno di mantenimento o di quello di divorzio.

Con la sentenza n. 19423/2014 la Corte di Cassazione, sez. II, torna sulle medesime riflessioni. Nei casi di rapporti di fatto in cui l’unione sia libera, esclusiva, stabile, duratura e caratterizzata dalla contribuzione di entrambi i conviventi al menage familiare, anche dopo la dissoluzione del rapporto di coppia (nel caso de quo a causa della morte del convivente) non è consentito all’erede che diventi proprietario dell’immobile di estromettere il convivente rimasto in vita, poiché il canone della buona fede e della correttezza impone al titolare legittimo che intenda avere l’esclusività dell’immobile, di concedere un congruo termine al convivente in modo che questi cerchi un’altra sistemazione. A giudizio della Corte, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune si concretizza un potere di fatto basato su un interesse proprio del convivente diverso da quello che deriva da ragioni di mera ospitalità, e pertanto assume i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un “negozio giuridico di tipo familiare”. L’estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa, compiuta dal proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l’azione di spoglio. L’azione sarà esperibile anche nei confronti dell’erede del proprietario che, pur subentrando per fictio iuris nel possesso del de cuius, non è legittimato ad estromettere dal possesso con violenza o clandestinità colui che non poteva esserne estromesso dal de cuius. Pertanto, così come è precluso al convivente more uxorio, ancorché proprietario, estromettere l’altro, così anche all’erede è precluso estromettere con violenza o clandestinità il convivente che esercitava sull’immobile un potere di fatto basato su di un interesse proprio e fondato su una di una relazione di convivenza meritevole di tutela. La reintegrazione, specifica la Corte, deve avvenire nella stessa situazione di fatto esistente al momento dello spoglio, non contrastando tale reintegrazione con l’art. 1146, comma 2, c.c. secondo il quale il possesso continua nell’erede con effetto dall’apertura della successione. Per la Corte, per effetto della fictio iuris di cui sopra, il possesso del de cuius si trasferisce agli eredi, i quali subentrano nel possesso del bene anche senza la necessità di una materiale apprensione, così che, mancando il precedente possesso “corpore”, la materiale apprensione mediante l’esclusione del detentore qualificato è stata legittimamente sanzionata con l’ordine di reintegrazione.

Sebbene la strada per una piena ed effettiva parità giuridica tra famiglia di fatto e di diritto appaia ancora lunga ed ontologicamente poco probabile, il nostro ordinamento, coadiuvato ed incentivato in primis dal lavoro interpretativo svolto dalla magistratura, sta progressivamente confrontandosi ed adeguandosi alla mutata concezione di famiglia oramai radicatasi nella società moderna, che, pur essendo al di fuori di uno schema legale ben preciso, esprime come appena analizzato caratteri ed istanze analoghe a quelle della famiglia stricto sensu intesa. Dalle ultime pronunce analizzate emerge con chiarezza il peso che la convivenza more uxorio ha assunto, connotando una famiglia il cui legame è fondato su una affectio del tutto simile a quella della famiglia legittima, nonostante quest’ultima continui ad essere considerata quale sede privilegiata per l’estrinsecarsi della personalità individuale. Toccherà ancora una volta al legislatore il compito di proseguire nell’iter tracciato dalla giurisprudenza, rafforzando concretamente le tutele per le coppie di fatto e riconoscendo a pieno titolo la famiglia di fatto come formazione sociale idonea ad incentivare il libero sviluppo della persona nella vita di relazione. 

Ultima modifica il 28 Giugno 2015