che, probabilmente, nella vita reale non sempre si avrebbe il coraggio o la forza di compiere.
Il loro ambientarsi nel mondo virtuale, peraltro, non rende il loro disvalore sociale inferiore a quelle adottabili nel “mondo reale”. Anzi. Proprio la copertura che in qualche modo l'operare nel virtuale garantisce, indebolisce troppe volte le remore morali.
Esempio ne è il dilagare di episodi di cyberbullismo, fenomeno all’ordine del giorno nella cronaca quotidiana, talora purtroppo con risvolti anche tragici.
Occorre, allora, capire cosa si intenda con tale termine e comprendere quale possano essere le soluzioni per contrastare tale fenomeno.
Partiamo da un presupposto: non ne esiste una vera definizione giuridica.
Si può allora definire come cyberbullismo, ogni condotta illecita di prevaricazione diffusa, soprattutto tra gli adolescenti e nei confronti, la maggior parte delle volte, di altri adolescenti, mediante la rete di internet.
Anche da un punto di vista delle condotte materiali diventa estremamente difficoltoso riuscire a tipizzarle, potendo esplicarsi nelle più innumerevoli, dall'invio di mail, alla diffusione di video, fino alla pubblicazione di post su social network.
Il tutto con delle innegabili aggravanti.
In primo luogo, la reiterazione potenzialmente infinita.
In seconda istanza, una diffusione molto più ampia, nonché un difficile possibilità di contrasto immediato.
Non solo, proprio la mancanza di un contatto reale permette al cyberbullo di operare senza remore ogni qualvolta la vittima si colleghi in rete.
E' evidente, allora, che si tratta di una problematica davvero seria e che può portare ad avere conseguenze ancora più serie, soprattutto laddove le vittime di tali condotte siano soggetti, per condizione fisica, sociale o psicologica, estremamente deboli.
Però, è altrettanto evidente che è possibile contrastarla e, soprattutto, fare in modo che gli autori di dette condotte siano severamente sanzionati.
Innanzitutto sfatando un falso mito.
Non esiste l'anonimato assoluto.
Il tentare di celarsi dietro quanto più fantasiosi e contorti nickname, non garantisce impunità, stante ormai la possibilità, sempre più concreta, per l'autorità giudiziaria di risalire, in ogni caso, a chi si cela dietro quei nickname.
E' essenziale, quindi, che ogni singolo episodio sia sempre e comunque denunciato all'autorità giudiziaria.
Altro elemento che deve essere ben evidente è che il nostro ordinamento ha già al suo interno risposte sanzionatorie opportune.
Gli atti di cyberbullismo, possono, infatti, essere ben inquadrati all'interno dei singoli reati previsti dal codice penale (minaccia, ingiuria) e, laddove l'autore delle condotte incriminate sia soggetto maggiore degli anni 14, seppure minore di anni 18, esso ne risponderà davanti al tribunale dei Minorenni.
Non sfugge poi a chi scrive che, con riferimento alle condotte di cyberbullismo, per giurisprudenza ormai costante, una loro perpetrata reiterazione ben può portare ad un'imputazione per il reato di cui all'art. 612 bis, ovverosia per atti persecutori.
Non sfugge nemmeno che proprio con riferimento a tale fattispecie è stata prevista l'introduzione di un'aggravante specifica, mediante il Dl n. 94 del 2013 convertito dalla legge n. 119 del 2013.
Più precisamente, il comma 2 del suddetto articolo recita “la pena è aumentata se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici”.
Non solo, lo stesso ordinamento prevede anche quali siano le conseguenze per gli adulti nel caso il proprio figlio minore commetta atti di cyberbullismo.
L'art 2048 c.c. statuisce infatti che il padre, la madre, il tutore sono responsabili del fatto illecito commesso dal figlio minore.
Proprio in riferimento a tale tipologia di responsabilità, la giurisprudenza di legittimità, ha elaborato la fattispecie della "culpa in educando prevedendo la responsabilità giuridica diretta e personale del genitore per i danni cagionati dal figlio/a, anche quando questo si trovi in custodia, presso la scuola ovvero un’altra struttura socio educativa.
La Suprema Corte di Cassazione ritiene, infatti, che i genitori sono comunque tenuti a dimostrare, per liberarsi dalla responsabilità per il fatto compiuto dal minore, in un momento in cui lo stesso si trovava soggetto alla vigilanza di terzi, di avere impartito al minore stesso un'educazione adeguata a prevenirne comportamenti illeciti. Paradigmatica sul punto è stata la Cassazione civile, Sez. III, che con la sentenza n° 7050 del 14.03.2008 si è così espressa: "I genitori sono responsabili dei figli minori che abitano con essi, sia per quanto concerne gli illeciti comportamenti che siano frutto di omessa o carente sorveglianza; sia per quanto concerne gli illeciti riconducibili ad oggettive carenze nell'attività educativa, che si manifestino nel mancato rispetto delle regole della civile coesistenza, vigenti nei diversi ambiti del contesto sociale in cui il soggetto si trovi ad operare. L'eventuale allontanamento del minore dalla casa dei genitori non vale di per sé ad esimere i genitori stessi da responsabilità".
Di fronte a queste considerazioni, l'obiettivo dovrebbe spostarsi non già sulla presenza o meno di effettivi strumenti sanzionatori, capaci di contrastare simili censurabili condotte, quanto sulla capacità delle medesime di rispondere in maniera quanto più efficace e celere.
Ed infatti, come talvolta capita di fronte a tematiche nuove e che hanno vasta presa sull'opinione pubblica, il legislatore ha sentito l'esigenza di dover dare una propria risposta al problema.
Ci si immaginerebbe che lo abbia fatto attraverso una ancora più accentuata volontà di colpire tali condotte, pur rimanendo in ogni caso nell'alveo di quanto, appunto, già previsto.
Tuttalpiù, ci si sarebbe potuti aspettare l'introduzione di una nuova e più specifica fattispecie di reato, magari accompagnata da misure più celeri per riuscire a chiamare in causa i soggetti deputati all'educazione dei minori.
Ed invece, si è al momento addivenuti, alla luce di un disegno di legge allo stato approvato solo in uno dei due rami del Parlamento, alla previsione di una sorta di diritto all'oblio per minori.
La norma, specificatamente il Ddl n. 1261 del 2015, prevede la possibilità di inoltrare direttamente ai titolari del trattamento una formale istanza per l’oscuramento, la rimozione o il blocco di qualsiasi altro dato personale del minore, diffuso nella rete internet.
Laddove tale richiesta non sia stata esaudita, l'istante può adire l'Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali, la quale deve provvedere entro quarantotto ore.
Da un lato, pertanto, è evidente come si consideri la condotta incriminata quasi in secondo piano rispetto alla cancellazione del contenuto. Dall'altro, però, al fine di addivenire al risultato che parrebbe primario, ovvero la cancellazione del contenuto, si prevede l'instaurarsi di un procedimento che, per quanto celere immaginato dal legislatore, ha delle naturali lungaggini.
Un rimedio potrebbe essere costituito dal coinvolgimento di corpi o strutture dello Stato, come ad esempio la Polizia Postale, che ben più celermente potrebbero assicurare entrambi i risultati, ovverosia il contrasto anche duro avverso simili condotte e la quanto più immediata cancellazione dei risultati da esse prodotti.