Pubblicato in Altri diritti

PROPAGANDA POLITICA SULLE IDEE DISCRIMINATORIE “LECITE”

by Avv. Valentina Picone on06 Luglio 2016

La comunicazione, primigenia forma di interazione sociale, ha assunto un ruolo anche istituzionale, diventando una risorsa strategica per avvicinare il cittadino alla gestione della cosa pubblica.

In questo contesto, si inserisce la propaganda politica ovvero un’attività di persuasione dell’opinione pubblica, sostenuta da un linguaggio simbolico ed emozionale, da valori e tematiche attorno al quale costruire un’ideologia; figlia della storia, arriva ai giorni nostri purificata dall’accezione negativa dei totalitarismi del XX secolo e sostenuta dalle libertà fondamentali della società civile, in primis, dall’art. 21 Cost. I primi interventi normativi in materia, risalgono alla Legge 04 aprile 1956, n. 212 (sulle modalità di propaganda e sull’istituto del silenzio elettorale) e alla Legge 10 dicembre 1993, n. 515 (sulle elezioni per la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica); solo con la Legge n. 28 del 2000, inizia a trovare spazio una normazione sul “contenuto” della propaganda che impone il rispetto delle regole di par condicio nell’ambito della comunicazione radiotelevisiva e radiofonica per garantire il pluralismo di tutte le forze politiche. Sulla stessa scia, si inserisce la Legge 24 febbraio 2006, n. 85 in materia di reati di opinione che - tra l’altro - rimodella la fattispecie di propaganda “razzista”, di cui alla prima parte della lett. a, del primo comma dell’art. 3 della Legge 654/1975 che punisce chi “propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico” e chi “istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, per cui, il limite contenutistico sulla propaganda politica è di tipo discriminatorio.

La discriminazione si realizza quando i diritti e le opportunità riconosciuti a un certo gruppo di persone sono negati ad altri, traducendosi in un’offesa ai principi di uguaglianza e dignità umana (art. 3 Cost.); sotto l’aspetto contenutistico, questa categoria concettuale trova un suo contrappunto nell’art. 43 D.lgs. 286/1998 (Testo unico sull’immigrazione): ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”. Non è un caso che il concetto di discriminazione venga associato alla materia dell’immigrazione che, oggi più che mai, è un possibile tema di campagna politica.

Il reato di propaganda di idee discriminatorie punisce, invero, un contenuto particolare di una comunicazione a prescindere dal canale prescelto che è accompagnato da un bagaglio offensivo turbativo di valori morali, spirituali o di sentimenti di sensibilità. Si tratta di una fattispecie caratterizzata da un importante indeterminatezza che impone una valutazione rigorosa sul concetto di discriminazione ovvero un sentimento immediatamente percepibile come connaturato alla esclusione di condizioni di parità e fondato su pregiudizio manifesto di inferiorità (Cass., Sez. V, 28 gennaio 2010, n. 11590). La percezione e l’evidenza sono, quindi, parametri utili alla ricostruzione della fattispecie de qua, il cui presupposto va ricercato in una manifestazione di un’idea fondata da una pretesa superiorità razziale o da odio etnico; ne consegue che è l’idea che va punita non un pregiudizio che, fino quando alberga nella morale degli individui, non è rilevante né sanzionabile.

Per comprendere meglio il senso di queste argomentazioni, è possibile ripercorrere le principali pronunce giurisprudenziali sul punto. La Corte di Cassazione ha ritenuto non discriminatoria una propaganda che aveva ad oggetto una petizione contro la rimozione dei campi nomadi abusivi (Cass., Sez. III, 28 marzo 2008, n. 13234), analoghe considerazioni per un manifesto con il quale, alcuni esponenti politici, sollecitavano l’amministrazione locale ad “espellere” i rom e a “smantellare i loro insediamenti irregolari” (Cass., Sez. IV, 10 luglio 2009, n. 2353).

Il delitto di propaganda discriminatoria è stato ritenuto sussistente, invece, nel caso di un manifesto con la scritta: “No ai campi nomadi. Firma tu per mandare via gli zingari” (Cass., Sez. IV, 30 ottobre 2009, n. 41819); ancora, a seguito di un intervento politico di un consigliere comunale sulle Comunità Rom e Sinti che, nel corso di una seduta consiliare, furono definiti “canaglie, assassini, pigri, vanitosi, aguzzini”, un popolo di “sedicente cultura” e di “discutibili tradizioni” (Cass., Sez. I, 22 novembre 2012, n. 47894); ancora, un consigliere comunale che, mediante l’utilizzo del social network diffondeva frasi discriminatorie del seguente tenore: “sti rom mi fanno proprio vomitare, quando vedo quello che fa lo storpio e che in stazione cammina normalmente vorrei prenderlo a calci” (Tribunale di Padova, 20 aprile 2011, n. 844, confermata in grado d’appello nel 2014).

In ultima analisi, si ricordi il discusso caso di un candidato al rinnovo del Parlamento Europeo (2009) che propose un volantino sul quale compariva la frase “Basta usurai, basta stranieri” e, sotto il simbolo di appartenenza, la scritta: “Elezioni europee 6-7 giugno 2009 Difendi l’Italia - VOTA S.”; a questo si aggiungevano sei caricature che raffiguravano: a) un cittadino dai tratti somatici asiatici che vende prodotti “made in China”; b) un Abramo Lincoln con tanti dollari che gli svolazzano intorno; c) un uomo di colore che offre droga; d) un arabo con una cintura di candelotti di dinamite pronto a farsi esplodere; e) una donna italiana con un bambino in braccio e, di fianco, una mendicante rom che allunga le mani in direzione dello stesso. In primo e in secondo grado, viene condannato per il reato di cui all’articolo 3, comma I, lettera a), della legge 13 ottobre 1975, n. 654. La Corte di Cassazione ribalta l’esito processuale, annullando senza rinvio, perché il fatto non sussiste.

Si tratta di un caso emblematico nel quale la cultura democratica votata all’integrazione sembra stridere con le decisioni sulla giustizia che appaiono, prima facie, illogiche. La soluzione ermeneutica degli ermellini, evidentemente, tiene conto dei principi di diritto penale che impongono una valutazione rigorosa su un illecito penale che anticipa la soglia di punibilità del fatto fino al limite dell’esposizione al pericolo dell’offesa al bene giuridico, per cui, le espressioni per essere “materialmente” discriminatorie, devono essere percepite come tali: gli stranieri, in questo caso, non venivano discriminati in quanto tali ed esclusi, per ragioni di razza o etnia, dal contesto del vivere sociale ma additati come portatori di criminalità. Insomma, manca il concetto di “superiorità”, presupposto indefettibile per sostenere l’intento teleologico offensivo di una propaganda discriminatoria. La corretta contestualizzazione della condotta, ha portato la Cassazione ad escludere che il messaggio del volantino fosse stato quello di propagandare un’avversione verso i soggetti sullo stesso raffigurati in maniera caricaturale, ma verso le attività illecite dagli stessi posti in essere (Cass., Sez. IV, sentenza 25 giugno 2015, n. 36906).

L’insegnamento che si trae dalle sentenze sopra richiamate, sembra fissare un discrimine tra discriminazione sulle “qualità” di un soggetto da quella fondata sui “comportamenti criminosi”: la discriminazione del delinquente è ammissibile, quella relativa alle qualità di una persona non è consentita. Tali argomentazioni non sembrano delle più felici, in primo luogo, perché ammettendo la “discriminazione per l’altrui criminosità”, si sostiene un’idea di non inclusione sociale di un soggetto (il delinquente) cui la funzione rieducativa della pena tende proprio a socializzare; in secondo luogo, perché, nel momento in cui si argomenta in termini di discriminazione (seppur ancorata all’altrui criminosità) si sta valutando un contenuto di un atto, fatto o pensiero che è già portatore di un giudizio negativo. È pur vero che la discriminazione è diversa dal pregiudizio, che si riferisce ad opinioni e/o atteggiamenti dei membri di un gruppo verso quelli di un altro ed è altrettanto vero che una persona può avere dei pregiudizi senza che essi si tramutino in atteggiamenti discriminatori ma, nel caso della comunicazione, questa differenza tende ad annullarsi. In definitiva, una opinione, un’idea o è discriminatoria o non lo è, e se è considerata discriminatoria non può essere ritenuta priva di offensività.

L’errore argomentativo, in questi casi, è l’associazione di una idea ad una determinata categoria di soggetti, in questo modo, si corre il rischio di incentivare la generalizzazione che non può che tradursi in una forma di discriminazione. La generalizzazione, infatti, non coinvolge solo comportamenti, ma anche giudizi, attributi, valutazioni, archetipi degli stereotipi; è una classificazione delle persone all’interno di “categorie” che si concretizza attraverso la capacità di reagire a stimoli simili in modo simile con la costruzione di gruppi e/o categorie cui “si appartiene” o non “si appartiene”, questo si traduce, inevitabilmente, nella emersione delle differenze; ed è su queste differenze che la politica di un paese democratico dovrebbe intervenire per riequilibrare il disagio di chi, straniero o italiano, si senta discriminato in quanto “associato” ad una categoria. Insomma, una propaganda politica responsabile di idee “pure”, per evitare di correre il rischio di fomentare l’emersione di pregiudizi indotti o stereotipi mascherati: “Basta usurai, basta criminali. No alla contraffazione di marchi, alla corruzione, al fenomeno del narcotraffico, al terrorismo, all’accattonaggio”.

Se è vero che la libertà di manifestazione del pensiero deve assicurare a tutti la possibilità di esprimere le proprie idee senza censure, la libertà di comunicazione e propagandapolitica dovrebbe essere un viatico di idee “diverse” ma in un’ottica democratica e pluralista, per cui la forza della persuasione deve essere l’ideologia, scevra da qualsiasi vestito identitario. Solo in questo modo, a parere di chi scrive, si possono ricomporre le incongruenze tra messaggi e interpretazione degli stessi, evitando che sul tavolo della politica, trovi spazio il giudizio morale. 

Ultima modifica il 06 Luglio 2016