, estraneo alla titolarità del disponente.
Per il noto brocardo nemo plus iuris transferre potest quam ipse habet, può il donante trasferire un bene di un terzo?
Giova una breve disamina della disciplina codicistica della donazione.
Il contratto di donazione è il negozio giuridico liberale per eccellenza. A norma dell’art. 769 c.c. “La donazione è il contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un’obbligazione”.
Il concetto di liberalità evoca uno spostamento di ricchezza da un soggetto ad un altro finalizzato ad incrementare il patrimonio dell’avente causa e a perseguire un interesse non patrimoniale del disponente. In particolare, attraverso atti di liberalità il disponente attribuisce spontaneamente un vantaggio patrimoniale al ricevente e contemporaneamente realizza una diminuzione del proprio patrimonio.
Non è casuale l’utilizzo dell’avverbio “spontaneamente”. Colui che opera l’atto di liberalità non adempie, infatti, a nessun obbligo giuridico, né morale o sociale, non esistendo fonte normativa o convenzioni sociali che glielo impongano.
La donazione, in definitiva, è il contratto gratuito ed animato da spirito di liberalità, per mezzo del quale le parti pattuiscono, uno actu, l’arricchimento del donatario e la diminuzione patrimoniale del donante. Lo spirito di liberalità si manifesta o nell’attribuzione di un proprio diritto dal donante al donatario (classico caso è il trasferimento di un diritto reale) oppure nell’assunzione di un’obbligazione verso quest’ultimo – la c.d. donazione obbligatoria.
La mancanza di corrispettività e la correlativa debolezza causale sono temperate dalla richiesta legislativa di una forma solenne per la valida stipula del contratto di donazione, quale l’atto pubblico, come prescrive l’art. 782 c.c.
In merito allo specifico oggetto di riflessione, il dubbio sulla validità della donazione di un bene altrui è sorto poiché nessuna norma autorizza o vieta esplicitamente siffatta ipotesi, mentre l’art. 771 c.c. esplicitamente decreta la nullità per la donazione di beni futuri, salvo si tratti di frutti non ancora separati.
In che relazione si pongono donazione di cosa futura e donazione di cosa altrui?
Sono in rapporto di genus a species o vicende autonome e separate?
Prima dell’intervento risolutore delle Sezioni Unite sono state elaborate due tesi.
Parte di giurisprudenza ha reputato l’art. 771 c.c. applicabile non solo alla donazione di beni oggettivamente non esistenti, ma anche alla donazione di beni soggettivamente inesistenti, ossia rinvenibili in rerum natura ma non inclusi nel patrimonio del donante. Aderendo a questa opinione, ha concluso per la nullità della donazione di beni altrui.
A sostegno, si evidenzia che il legislatore, con la norma di cui all’art. 771 c.c., ha voluto evitare che un soggetto possa disporre di qualcosa che non è suscettibile di negoziazione, e tale è sia il bene futuro, sia il bene di un terzo. Donazione di res futura e donazione di res altrui sarebbero fenomeni assimilabili, accomunati da medesima ratio e pertanto passibili di essere similmente disciplinati.
Ulteriormente, si sottolinea che l’art. 769 c.c. prevede che una parte arricchisce l’altra disponendo di un “suo” diritto. Se il disponente potesse avvantaggiare il donatario, per spirito di liberalità, di un bene che non gli appartiene, si darebbe la stura ad una interpretazione che supera il dato testuale
Esattamente contraria la tesi secondo la quale l’art. 771 c.c. è una norma eccezionale e quindi insuscettibile di applicazione analogica. Ubi lex voluit, dixit, ubi noluit, tacuit; se il legislatore avesse voluto vietare la donazione di beni di terzi lo avrebbe detto espressamente
Per di più l’art. 769 c.c. contempla la donazione obbligatoria quale modalità di realizzazione di una liberalità e allora nulla osta a che il donante, obbligatosi verso il donatario, acquisti la proprietà dal terzo e poi la trasferisca a quello.
Le Sezioni Unite, preso atto del contrasto, hanno individuato una soluzione che esula da entrambe le tesi e che poggia sulla rilevanza della causa del contratto. Il contratto di donazione avente ad oggetto beni altrui è nullo per difetto causale, salvo il caso in cui il donante abbia conoscenza dell’altruità e tale consapevolezza risulti dall’atto pubblico.
Il Collegio non valorizza tanto l’argomento letterale sostenuto dal primo orientamento citato, ossia il fatto che il diritto debba essere “suo” con riferimento al donante, quanto, piuttosto, la causa dell’attribuzione patrimoniale. Se lo spirito di liberalità consiste nel contestuale arricchimento del donatario ed impoverimento del donante, nel caso di specie, fermo il beneficio per il ricevente, non si riscontra il depauperamento del disponente.
Nulla quaestio allora se il bene si trova nel patrimonio del donante al momento della stipula del contratto.
Se, invece, la cosa non è di proprietà del donante, questi deve assumere espressamente l’obbligazione di procurare l’acquisto dal terzo al donatario e farne menzione nell’atto.
La donazione di res altrui è una donazione obbligatoria di dare, valida a condizione che il donante sia a conoscenza dell’altruità del bene e ne dia contezza nell’atto pubblico.
Se, invece, l’altruità del bene donato non è nota ai contraenti né risulta dal titolo, la donazione non potrà produrre effetti obbligatori, né potrà applicarsi la disciplina della vendita di cosa altrui.
In conclusione, la donazione di res altrui è affetta da nullità non perché rientrante nel divieto di donazione di beni futuri ex art. 771 c.c., analogicamente applicabile all’ipotesi in commento, ma perché la mancata conoscenza dell’altruità del bene in capo al donante comporta l’impossibilità di realizzazione degli effetti del negozio, e di conseguenza il deficit della causa donativa.
La nullità della donazione di bene altrui è riconducibile, pertanto, al combinato disposto degli artt. 1325 e 1418, comma 2, c.c.