Il caso, prima facie, semplice quanto consueto: O.R., persona straniera senza fissa dimora e senza lavoro, si appropriava di generi alimentari del valore di 4 euro sottraendoli dallo scaffale di un supermarket; alla cassa presentava solo un pacco di grissini ma nella giacca nascondeva due porzioni di formaggio e una confezione di wurstel. Il fatto veniva segnalato da un avventore del supermarket. I giudici delle prime cure condanno per furto O.R., la Corte di Cassazione annulla la sentenza: il fatto non costituisce reato.
La soluzione ermeneutica dei giudici nomofilattici è stata inghiottita nel vortice dell’attenzione mediatica tra commenti di cronaca e di politica criminale: «Perché rubare per fame non è reato», «Rubò wurstel al supermarket. La Cassazione: era fame, non è reato», «Wurstel e formaggio per sfamarsi», «Clochard ruba quattro euro di wurstel per fame, la Cassazione: non è reato».
Da un punto di vista squisitamente giuridico, il caso ha destato perplessità soprattutto in ordine alla qualificazione del fatto. I giudici di merito ricostruiscono la verità processuale in termini di furto anche se rilevano che l’oggetto del reato (generi alimentari per un valore di 4 euro) faccia ritenere applicabile l’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p. (danno patrimoniale di speciale tenuità) prevalente rispetto alla recidiva. Il fatto è tipico e antigiuridico, O.R. è responsabile.
La Cassazione ribalta tale ricostruzione per due ordini di motivi. I giudici delle prime cure, in primo luogo, non considerano una circostanza: l’agente fu sorpreso da un cliente mentre infilava in tasca la merce, pertanto, non poteva dirsi realizzata la fattispecie di furto ma di tentato furto. In secondo luogo, il fatto era stato commesso in presenza di una causa di giustificazione: lo stato di necessità ex art.54 c.p., una ipotesi che risolve casi di conflitto di interessi (entrambi meritevoli di tutela) per cui il pericolo della lesione al bene della vita non può che essere scongiurato se non a patto di sacrificare un altro.
Gli elementi sintomatici della sussistenza dell’esimente erano individuabili dalla scomposizione del fatto: l’azione posta in essere da O.R. (appropriarsi di generi alimentari) era stata “necessaria” per salvare sé da un pericolo attuale (l’assenza di cibo) “né altrimenti evitabile” (le condizioni di vita dell’agente) riferito ad un grave danno alla persona (denutrizione, pericolo di vita): la condizione dell’imputato e le circostanze in cui è avvenuto l’impossessamento della merce dimostrano che egli si impossessò di quel poco cibo per far fronte ad una immediata ed imprescindibile esigenza di alimentarsi, agendo quindi in stato di necessità (Cass. Pen., Sez. V, 7 gennaio – 2 maggio 2016, n. 18248). Il fatto è tipico ma non è antigiuridico, O.R. non è responsabile.
Questa pronuncia ha riportato in auge l’annoso quanto mai attuale tema dello stato di bisogno economico ovvero uno stato di necessità determinato da indigenza che coinvolge non solo questi casi ma altre problematiche molte critiche come l’occupazione abusiva di un immobile; la Cassazione, da sempre, ha ritenuto incompatibile queste ipotesi con l’art. 54 c.p. in quanto l’operatività dell’esimente presuppone la concreta imminenza di un grave pericolo alla persona, non altrimenti evitabile: il pur grave disagio della mancanza di un alloggio - si sostiene - può essere evitato oltre che attraverso i mezzi forniti dalla moderna organizzazione sociale, anche con diversi rimedi (es., alloggio da parenti o amici); insomma, la situazione di permanenza determinata dall’indigenza sarebbe incompatibile con l’attualità del pericolo (imposta dell’art. 54 c.p.) perché stravolgerebbe la ratio della norma, di natura eccezionale (Cass. Pen., Sez. II, 30 marzo 2016, n. 12840). Analogamente per i casi di indigenza determinati da mancanza di cibo, si è più volte ribadita l’idoneità di tali circostanze ai fini della sussistenza della scriminante atteso che alle esigenze degli indigenti e dei bisognosi si può provvedere con la moderna organizzazione sociale per mezzo degli istituti di assistenza (Cass. Pen., sez. III, 26 aprile 2006 n. 16056, Cass. Pen., sez. VII, 16 maggio 2006 n. 26143).
Sulla scorta di queste osservazioni si potrebbe, a questo punto, obiettare che la condotta di O.R. non era da considerarsi “inevitabile”: piuttosto che rubare avrebbe potuto recarsi presso strutture o enti assistenziali sia pubblici che privati. Preliminarmente, occorre una precisazione. Il nostro ordinamento, sebbene privo di un testuale richiamo normativo al “diritto al cibo”, lo tutela indirettamente mediante l’adesione a numerosi Trattati internazionali, vedi la Dichiarazione universale dei diritti umani (“Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione,art. 25); a ciò si aggiunga la lettura composita delle disposizioni programmatiche della Costituzione (prima fra queste l’art. 3 Cost.) che consentono di sopperire a tale lacuna con l’attuazione di politiche pubbliche; non da ultimo, il 28 aprile 2015 in occasione della presentazione della Carta di Milano per EXPO, è stato affermato chetutti hannoil diritto di accedere a una quantità sufficiente di cibo sicuro, sano e nutriente; questi moniti sono confluiti nella Proposta di legge costituzionale Cimbro ed altri n. 3133 sulla modifica all’articolo 32 della Costituzione che verrebbe così riscritto: «La Repubblica tutela la salute e la sicurezza alimentare come fondamentali diritti dell’individuo e interessi della collettività e garantisce cure gratuite e l’accesso al cibo agli indigenti»; tuttavia, il disegno di legge, al momento, stagna in prima lettura alla Camera dei Deputati.
Se questo è vero, allo stato attuale, il diritto al cibo può considerarsi un implicito diritto costituzionalizzato senza nome ma garantito a tutti, quindi anche agli stranieri.
Ebbene proprio sulla scorta di queste osservazioni è possibile rileggere un passo della motivazione della Cassazione che esclude l’evitabilità dell’azione: il diritto al cibo era sotteso all’esigenza di alimentarsi in un tempo “immediato ed imprescindibile” in considerazione anche della scelta dell’alimento che si prestava ad un pronto consumo (due porzioni di formaggio e una confezione di wurstel); questo, evidentemente, dimostrava l’esigenza fisiologica di un rapido sostentamento, escludendo l’ipotizzabile attesa per la soddisfazione del bisogno per il tramite di servizi assistenziali. La sussistenza della scriminante, insomma, rendeva lecito (in quanto giustificato) ed inoffensivo il fatto, impedendo qualsiasi altra valutazione in termini di punibilità del fatto. Questo basta ad escludere la percorribilità di soluzioni alternative, vedi l’applicazione di circostanze di nuovo conio come l’art. 131-bis c.p.: è la concreta manifestazione del reato che ne segna il disvalore, per cui si distingue tra fatto tipico e fatto storico, ove solo quest’ultimo assume rilevanza ai fini del giudizio di tenuità (o non tenuità) del fatto (Cass., S.U., 6 aprile 2016 n. 13681); questo significa che in un giudizio di particolare tenuità si ragiona su un’offesa perfetta cagionata da un fatto tipico e antigiuridico, valutando solo l’opportunità dell’inflizione della pena. Nel caso di specie, mancando l’antigiuridicità del fatto non si potrebbe ragionare in merito ad un’offesa “lecita”.
La soluzione offerta dalla Cassazione, a parere di chi scrive, è pienamente aderente alle scelte di politica criminale del nostro ordinamento e mette solo in luce la mancata valutazione di circostanze emerse nel corso del giudizio di merito, escludendo che un bisogno di primaria importanza potesse essere soddisfatto con la moderna organizzazione sociale; non stravolge un orientamento consolidato né ampia l’interpretazione eccezionale della scriminante ma, semplicemente, adatta alle circostanze di tempo e di spazio la valutazione di un bisogno essenziale del vivere civile che giustifica una condotta che non può dirsi rimproverabile.