La controversa figura del concorso eventuale nella suddetta tipologia di reati costituisce terreno di ampi e complessi dibattiti dottrinali e giurisprudenziali.
Quanto alla struttura e funzione dei reati associativi, la peculiarità di queste fattispecie è che i singoli associati non orientano la propria attività esclusivamente verso l’attuazione di reati ben individuati; lo scopo è piuttosto quello di ripartirsi compiti e ruoli in modo da realizzare un programma indeterminato di delitti.
L’associazione si configura, quindi, quale compiuta organizzazione di uomini e mezzi, teleologicamente orientata alla realizzazione dei reati-fine. Non è necessaria tuttavia una specifica e complessa organizzazione di mezzi, essendo sufficiente una rudimentale predisposizione degli stessi, purché in concreto idonea alla realizzazione del programma di delinquenza e perdurante nel tempo. Il legame associativo, infatti, deve persistere oltre la realizzazione dei singoli episodi delittuosi e svolge una funzione propulsiva dei fatti criminosi ulteriori, tanto da costituire un pericolo costante per l’ordine pubblico.
Il fondamento normativo su cui ancorare la responsabilità penale dell’extraneus viene individuato nell’art. 110 c.p. che detta la disciplina del concorso eventuale, stabilendo che “quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita”. Il ricorso all’art. 110 c.p. rappresenta, invero, lo strumento più idoneo per attribuire rilevanza penale a tutte quelle condotte tese a contribuire al “rafforzamento” dell’associazione pur essendo realizzate da soggetti estranei alla societas sceleris.
La norma di riferimento in tema di reati associativi è rappresentata dall’art. 416 c.p. (associazione per delinquere) che delinea una tipologia delittuosa necessariamente plurisoggettiva, richiedendosi ai fini dell’interazione della fattispecie la presenza di un vincolo associativo tra tre o più soggetti finalizzato alla commissione di più delitti.
Alla luce del dato testuale emergente dall’art. 416 c.p., la dottrina maggioritaria ha sempre ritenuto che a qualificare una determinata condotta come “partecipativa interna e necessaria”, distinta da quella “concorrente esterna ed eventuale” contribuissero due elementi qualificanti: il primo costituito dallo stabile inquadramento del soggetto agente nell’organizzazione criminale; il secondo, l’elemento psichico che sorregge la condotta del soggetto partecipe dell’associazione, dato dalla commistione di due elementi soggettivi coessenziali, ossia il dolo generico di aderire al programma tracciato dall’associazione e il dolo specifico di contribuire, fattivamente, a realizzarlo.
La giurisprudenza ha effettuato tentativi dogmatici di inquadramento della figura del concorrente esterno, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, contribuendo ad una definizione positiva delle condotte in correità esterna. Nella sentenza Demitri dell’anno 1994 - che ha costituito la prima grande elaborazione della materia - la Corte di Cassazione a S.U. ha sottolineato la diversità di ruoli tra partecipazione all’associazione e concorso eventuale materiale.
Con la successiva pronuncia a Sezioni Unite n. 22327/2003 (sentenza Carnevale) la giurisprudenza di legittimità ha poi compiuto un’ampia rivisitazione dell’istituto del concorso esterno. Infatti, mentre nella precedente statuizione risalente al 1994 (sentenza “Demitry”) gli ermellini avevano escluso la necessità che l’extraneus agisse con la volontà di realizzare i fini propri dell’associazione, la sentenza del 2003 richiede, oltre alla consapevolezza, anche la volontà, da parte dell’extraneus, di apportare un contributo diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio.
Nel 2004 la II Sezione Penale della Cassazione emetteva la c.d. “sentenza Andreotti” secondo la quale non è sufficiente una condivisione meramente psicologica di programmi e finalità della struttura criminosa ma occorre la concreta assunzione di un ruolo materiale al suo interno.
Con la c.d. “sentenza Mannino” le S.U. del 2005 hanno poi definito e precisato ulteriormente i contorni della rilevanza penale del concorso eventuale nel reato associativo, soffermandosi su margini e condizioni di applicabilità dell’istituto al caso del c.d. “patto di scambio politico-mafioso”.
La sentenza dell’Ultri del 2012 è tornata sul tema, confermando l’orientamento della giurisprudenza consolidata in ordine alla configurabilità del concorso esterno in associazione anche mafiosa. Una successiva statuizione della Cassazione del 2013 ha affermato che la mera accettazione da parte del concorrente esterno del rischio di verificazione dell’evento non basta a configurare il reato. Occorre che la realizzazione del fatto tipico mediante l’evento di rafforzamento o conservazione sia rappresentata e voluta dal concorrente esterno nel senso che egli abbia accettato e perseguito detto obiettivo.
Sebbene sul piano del diritto interno la questione sembra essere ormai abbastanza pacifica, recentemente la Corte di Strasburgo ha invece condannato l’Italia per violazione dell’art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Con sentenza n. 3 del 14 aprile 2015 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha accolto all’unanimità il ricorso presentato da Contrada, ex poliziotto e Capo della Polizia di Stato, contro la condanna dei giudici italiani e condannato lo Stato italiano a risarcire allo stesso i danni morali subiti.
Nel 1992 Contrada, all’ epoca dei fatti già Capo della Polizia di Stato, era stato arrestato con l’accusa di aver trasmesso a esponenti di Cosa nostra informazioni riservate sulle attività investigative in corso e infine condannato nel 1996 dal Tribunale di Palermo a dieci anni di reclusione perconcorso in associazione di tipo mafiosa, con sentenza divenuta poi definitiva.
Nel 2008 Contrada aveva fatto ricorso alla CEDU sostenendo che tale condanna fosse stata emessa in violazione del principio nulla poena sine lege stabilito all’art. 7 della CEDU. Nello specificio il motivo del ricorso si basava sul fatto che nell’ordinamento italiano la fattispecie criminosa di concorso “esterno” nel reato di associazione di tipo mafiosa era stata il frutto di un’evoluzione giurisprudenziale consolidatasi solo successivamente all’epoca della commissione dei fatti contestatigli, con conseguente impossibilità di prevedere le conseguenze penali della condotta.
La CEDU ha accolto la tesi di Contrada e dichiarato che la condanna inflitta dal Tribunale di Palermo, e successivamente confermata dalla Cassazione, viola l’ art. 7 CEDU in quanto “all’epoca dei fatti contestati al ricorrente (1979-1988) il reato in questione non era per lui suficientemente chiaro e prevedibile. Il ricorrente non poteva dunque conoscere nel caso di specie la pena cui sarebbe andato incontro per le condotte dallo stesso poste in essere (par. 75)”.
Nelle motivazioni emerge ancora una volta con chiarezza il principio di legalità in materia penale, la Corte ha infatti sottolineato come quest’ ultimo possa dirsi rispettato solo nel momento in cui reati e pene siano stabiliti chiaramente dalla legge, senza ricorrere all’analogia, in modo che ciascun individuo nel momento in cui pone in essere una condotta, possa prevedere esattamente quali conseguenze potranno derivargli dalla stessa sul piano penale.
Questa pronuncia ha riacceso in Italia un dibattito che da anni vede dottrina e giurisprudenza in forte contrasto. La difficoltà nel definire la fattispecie del corcorso esterno deriva dal fatto che la sua configurabilià si deve al combinato disposto dell art. 416-bis c.p e dell’art. 110 c.p attraverso il quale si delineano quelle condotte consistenti in un contributo consapevolmente fornito al mantenimento o al rafforzamento dell’associazione per deliquere, ma che al contempo, in quanto poste in essere da soggetti non stabilmente inseriti nell’associazione, e non necessariamente interessati al raggiungimento dei suoi obiettivi, non appaiono sussumibili all’interno della fattispecie di partecipazione piena all’associazione.
Un altro ordine di problemi risiede poi nell’attuazione della sentenza della CEDU. Negli anni la giurisprudenza interna ha utilizzato diversi istituti processuali idonei a modificare o a paralizzare il giudicato a seconda del tipo di violazione da riparare. Alcuni esempi risiedono nel ricorso al giudice dell’esecuzione (art. 670 c.p.p.), nel ricorso straordinario in Cassazione per errore materiale o di fatto (art. 625-bis c.p.p.), o nell’istituto della revisione (art. 630 c.p.p.).
Trattandosi di una violazione del diritto sostanziale, la via più indicata sembrerebbe la revoca ai sensi dell’ art. 673 c.p.p della condanna a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa fondata sugli artt. 110 e 416-bis c.p.