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L’imputabilità del reato alla luce della sentenza Thyssenkrupp: intervista al Professor Masucci

by Dott.ssa Marta Valentini on29 Ottobre 2014

«Al cuore del diritto penale dell’impresa vi è un problema di imputazione», un’affermazione decisamente attuale, nonostante siano trascorsi oltre venticinque anni dalla pubblicazione di Cesare Pedrazzi[1]. Nell'ambito del diritto penale economico e del lavoro, infatti, il principio secondo cui ciascuno è chiamato a rispondere del reato per fatto proprio e colpevole si sgretola dinnanzi alla spersonalizzazione dell'organizzazione e dell'attività d'impresa.

Specificamente nel sistema prevenzionistico, il problema dell'individuazione delle posizioni di garanzia e del nesso di causalità per i delitti di omicidio colposo e di lesioni colpose gravi o gravissime, si affianca all'altrettanto annosa ricostruzione dell'elemento soggettivo. Ricostruzione che si è rivelata particolarmente complessa in occasione del noto caso giudiziario che ha coinvolto la ThyssenKrupp, sul quale si sono infine pronunciate Sezioni unite, individuando i criteri di distinzione tra dolo eventuale e colpa con previsione nella sentenza dello scorso aprile, le cui motivazioni sono state depositate il 18 settembre[2]

Per chiarire il senso delle determinazioni della Suprema Corte, si impone tuttavia una rapida ricostruzione dei fatti di causa, relativi all’incendio divampato nell'acciaieria di Torino lo scorso 6 dicembre 2007, in cui persero la vita sette operai.

Facendo propria l'impostazione accusatoria, il 14 novembre 2011 la Corte d'Assise di Torino condannava sei apicali dell'azienda[3]: Herald Espenhahn, l'amministratore delegato di ThyssenKrupp Terni S.p.A., a 16 anni e 6 mesi di reclusione per i delitti di omicidio volontario plurimo (artt. 81, c. 1 e 575 c.p.), incendio doloso (art. 423 c.p.) e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro aggravata dall'evento (art. 437, c. 2 c.p.), tutti caratterizzati dall'unicità del disegno criminoso (art. 81, c. 2 c.p.); gli altri cinque[4], invece, oltre che per il delitto di cui all'art. 437, c. 2 c.p., per omicidio colposo plurimo (art. 589, cc. 1, 2 e 3 c.p.) e incendio colposo (art. 449, in relazione all'art. 423 c.p.), entrambi aggravati dalla previsione dell'evento.

In punto di diritto, i giudici torinesi prendevano le mosse dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 10411/2011[5], in materia di omicidio colposo per violazione delle norme stradali. In quell'occasione, i giudici di legittimità avevano affermato che «nel dolo eventuale il rischio deve essere accettato a seguito di una deliberazione con la quale l'agente subordina consapevolmente un determinato bene ad un altro». Sulla base di questo assunto, la Corte d'Assise aveva rinvenuto la sussistenza del dolo in capo ad Herald Espenhahn, che aveva deciso «non solo il completo azzeramento degli investimenti previsti, degli interventi necessari [...]; ma l'altrettanto completo azzeramento delle condizioni minime di sicurezza indispensabili per lavorare su impianti come quelli dello stabilimento di Torino», in vista di una futura chiusura dello stabilimento. L'amministratore delegato aveva perciò accettato che il bene sicurezza dei lavoratori potesse venire sacrificato a favore del bene risparmio economico (cd. accettazione del rischio).

In secondo grado, tuttavia, la Corte di Assise di Appello di Torino riduceva la pena comminatagli a 10 anni di reclusione, qualificando la condotta come omicidio colposo aggravato da colpa cd. cosciente ex art. 61, c. 3 c.p., sulla base di motivazioni che sono state poi riprese dalla stessa Corte di Cassazione e che verranno esposte in seguito, per ragioni di coerenza espositiva[6].

Il 29 novembre 2013, dato il contrasto giurisprudenziale sui criteri di distinzione tra la figura del dolo eventuale e della colpa cosciente, rilevanti ai fini della decisione, il Primo Presidente della Suprema Corte Giorgio Santacroce assegnava i ricorsi alle Sezioni unite, come previsto dall'art. 610, c. 2 c.p.p.. Nello specifico, veniva posto il seguente quesito: «Se la irragionevolezza del convincimento prognostico dell’agente circa la non verificazione dell’evento comporti la qualificazione giuridica dell’elemento psicologico del delitto in termini di dolo eventuale».

Si è giunti a verdetto lo scorso 24 aprile, con la conferma della responsabilità degli imputati per omicidio colposo, l’annullamento di parte della sentenza di secondo grado ed il rinvio a diversa sezione della corte d'Assise di Appello di Torino per la rideterminazione delle pene[7].

Secondo la Suprema Corte, il dolo eventuale e la colpa cosciente si fondano entrambi nella prospettazione di un evento come possibile o probabile (cd. momento rappresentativo), mentre l’elemento di discrimine è dato dalla differente natura dei rimproveri giuridici, basati sul diverso atteggiarsi dell’agente rispetto alla previsione. 

In particolare, il dolo eventuale, che costituisce la figura più lieve della fattispecie dolosa, consiste in un atteggiamento interiore assimilabile alla volontarietà dell’accadimento (cd. momento volitivo), che si configura solo se «l’agente prevede chiaramente la concreta, significativa possibilità di verificazione dell’evento e, ciò nonostante, si determina ad agire, aderendo a esso, per il caso in cui si verifichi». Occorre quindi la rigorosa ricostruzione dell'iter e dell'esito del processo decisionale, al fine di dimostrare che l’agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento realizzatosi. Infatti, «”l'accettazione del rischio" circa il suo verificarsi consiste in una deliberazione consapevole, per cui l'agente avrebbe agito in tal modo pur nella certezza che l'evento sarebbe poi veramente accaduto». 

Nel caso di colpa cosciente, invece, «manca la direzione della volontà verso l’evento, anche quando è prevista la possibilità che esso si compia», poiché Il soggetto agisce nella convinzione o ragionevole speranza di poterlo impedire per abilità propria o altri fattori. Si tratta del «malgoverno di un rischio, della mancata adozione di cautele doverose idonee a evitare le conseguenze pregiudizievoli che caratterizzano l’illecito».

Ciò posto, il caso di specie si risolve in una condanna per omicidio colposo aggravato anche in capo all’amministratore delegato. Non essendovi dubbi sul momento rappresentativo, determinato dalla competenza del soggetto agente e dalle carenti condizioni organizzative e strutturali della sicurezza antincendio, è opportuno focalizzarsi sul momento volitivo della condotta criminosa, riprendendo alcune delle motivazioni a sostegno della decisione di secondo grado.

Come rilevato dai giudici della corte d'Assise di Appello, l'amministratore delegato non avrebbe agito in caso di certa verificazione dell'evento. Con riferimento al già citato arresto della Corte di Cassazione del 2011, qualora si fosse privilegiato il vantaggio economico all'incolumità dei lavoratori, il risparmio dato dai mancati investimenti in sicurezza sarebbe stato comunque vanificato dai maggiori costi per le spese processuali ed il risarcimento dei danni, dalla perdita d'immagine e dalla sospensione della produzione, come già accaduto in occasione dell'incendio della linea KL13 dello stabilimento di Krefeld (Germania) della Thyssenkrupp, simile per struttura e funzioni alla linea coinvolta nella tragedia di Torino.

Anche Herald Espenhah, come gli altri condannati, confidava quindi nella ragionevole speranza dell'intervento di altri fattori schermanti il rischio, tra cui la stessa condotta dei lavoratori, che erano sempre tempestivamente intervenuti per domare i focolai.

Date tali premesse, mi trovo ora in compagnia del Professor Masucci, penalista dell’Università Roma Tre, a cui ho il piacere di rivolgere alcune domande sul tema.

Con la sentenza in commento la Cassazione ritorna sulla distinzione tra dolo eventuale e colpa con previsione, specificando alcune delle conclusioni già espresse nella sentenza 10411 del 2011. Anche in quell'occasione, i giudici di legittimità avevano ridefinito l'elastica formula della "accettazione del rischio" individuando quale discrimine tra dolo eventuale e colpa cosciente il differente contenuto del momento volitivo. Ciò posto, é ravvisabile un ridimensionamento da parte delle Sezioni unite del concetto di dolo eventuale a favore della colpa cosciente? Si assisterà dunque ad un'inversione di marcia rispetto all’ampio ricorso a tale figura di dolo da parte del giudice penale?

L’obiettivo di circoscrivere efficacemente il dolo eventuale emerge senz’altro dalla motivazione della sentenza. Così pure il richiamo – più volte esplicitato – a un suo effettivo e ponderato accertamento processuale, al lume di tutte le «contingenze» rilevanti. Premetto che la sentenza è sviluppata in passaggi che meriterebbero, ciascuno, un’analisi dettagliata. Dovendo giocoforza rinunciarvi, mi pare corretto dire, in una sintesi davvero estrema, che le Sezioni unite rimarchino il contenuto volontaristico del dolo eventuale (si parla di una «scelta d’azione antigiuridica”, sia pure nel quadro di una nozione di volontà «indiretta o per analogia»); non rinunciando a indicare differenze rintracciabili, nel raffronto con la colpa, sin dall’esame del suo momento rappresentativo. Dirimente è, in questa chiave, aver ribadito che la «scelta d’azione» deve dirigersi a un evento percepito con chiarezza e caratterizzato da apprezzabile probabilità (cfr. spec. pagg. 180,  182 seg.); altrimenti prospettandosi la semplice colpa.

Parte vivissima della motivazione è pure nella disamina, compiuta alle pagg. 183 e segg., degli «indicatori» del dolo: vale a dire, degli elementi fattuali e giuridici deputati a orientarne la prova. Tra questi, come Lei ha ricordato, vi è l’analisi dell’atteggiamento psicologico dell’autore: per definire il quale svariate sentenze, compresa la n. 10411 del 2011, hanno valorizzato una formula conforme a quella proposta, ormai quasi un secolo addietro, da Reinhard Frank: vi sarebbe dolo eventuale quando possa dirsi che taluno avrebbe agìto (oppure omesso di agire) anche se avesse previsto come certo, e non meramente possibile, l’evento da lui causato. Le Sezioni unite sottolineano la capacità euristica della formula; ma ammoniscono al contempo sul residuare di situazioni in cui, non potendosi risalire con sicurezza alla determinazione che l’agente avrebbe maturato, la formula risulterebbe inefficace (cfr. pag. 187).

Guardando alle ricadute pratiche della sentenza, di grande importanza sono poi due affermazioni della Corte: la prima sulla necessità per il giudice di astenersi, nella verifica dell’elemento psicologico, da scelte politico-criminali; la seconda concernente il principio in dubio pro reo, che, giustamente richiamato dalla Cassazione in altri importanti casi (come nel processo per l’omicidio di Marta Russo), impone, in presenza di un ragionevole dubbio sul dolo (benché eventuale), di virare sulla colpa. 

La Corte di Cassazione si è altresì pronunciata su alcune questioni in materia di responsabilità amministrativa degli Enti ex D.Lgs. 231/2001. Questioni dirimenti, sulle quali molti tra i commentatori del Decreto avevano già focalizzato la propria attenzione, giungendo a conclusioni spesso contrastanti.

La normativa del 2001, come noto, supera il vetusto brocardo "societas delinquere non potest" individuando una serie di reati (i cd. reati presupposto) dei quali l'Ente è chiamato a rispondere se compiuti nel «suo interesse o a suo vantaggio» da uno dei soggetti interni, specificamente indicati dall'art. 5, c. 1 lett. a) e b) (cd. apicali e subordinati). Con i riportati criteri oggettivi di imputazione, a détta di una parte della giurisprudenza e delle Sezioni unite della Cassazione, il legislatore ha fatto propria la "teoria dell'immedesimazione organica", sciogliendo i dubbi di compatibilità con il principio costituzionale della responsabilità penale personale, limitatamente al divieto di rispondere per fatto altrui.

L'Ente può evitare responsabilità adottando ed attuando efficacemente un modello di gestione e controllo idoneo alla prevenzione del reato, prima della commissione dello stesso. Un meccanismo volto a soddisfare l'ulteriore requisito del principio di personalità, quello soggettivo della colpevolezza, riprendendo il concetto tedesco di "colpa di organizzazione" (Organisationsverschulden) che rimprovera l'Ente non sufficientemente organizzato, né tantomeno dotato di un sistema di controllo per la prevenzione dei reati. Tale esenzione opera diversamente a seconda che il fatto sia stato commesso da soggetti di vertice o da soggetti gerarchicamente subordinati: nel primo caso, l'Ente deve provare che il reato sia stato commesso con elusione fraudolenta del modello organizzativo ad opera della persona fisica agente; in caso di subordinati, basta la sua adozione ed efficace attuazione, con verifica dell'idoneità ad opera del giudice procedente. 

Tratteggiata brevemente la disciplina in materia di responsabilità amministrativa degli Enti, è opportuno tornare adesso al caso in commento, per esporre e commentare le statuizioni della Suprema Corte in materia. La ThyssenKrupp era già stata condannata dai giudici della Corte d'Assise e della Corte d'Assise di Appello di Torino per la fattispecie di cui all'art. 25-septies del citato Decreto (omicidio colposo e lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro).

I criteri oggettivi d'imputazione posti dal D.Lgs. 231/2001, tuttavia, suscitano parecchie riserve qualora riferiti alla fattispecie citata, dal momento che il requisito dell'interesse, riferibile alla sfera volitiva del soggetto agente, risulta difficilmente compatibile con la natura colposa dei delitti di omicidio e lesioni ivi indicati, mentre il vantaggio vi si concilia con molti stenti. 

Data l'indiscutibile opportunità sul piano criminologico di preservare la responsabilità dell'ente per i reati colposi e al fine di evitare un'indesiderata interpretatio abrogans, la Corte di Cassazione ha accolto la posizione di parte della dottrina[8], riferendo la norma ai reati compiuti per effetto di attività incautamente svolte nell'interesse o vantaggio dell'ente. Si tratta, quindi, di proiettare la motivazione dell'agire (di solito, un risparmio economico) sull'attività compiuta e non sull'evento finale (morte del lavoratore). Un'interpretazione che contrasta con quanti propongono invece di considerare la mera violazione delle regole di condotta. 

Da qui la mia domanda:

Premesso l'auspicabile intervento del legislatore riguardo ai criteri oggettivi di imputazione riferiti ai reati presupposto di matrice colposa, si sente di condividere la decisione dei giudici di legittimità o avrebbe ritenuto preferibile altra soluzione interpretativa?

La responsabilità dell’ente per reati colposi apparteneva, per così dire, al “DNA” del d. lgs. 231/2001, perché già prevista nella legge delega (art. 11, co. 1, lett. c e d della l. n. 300 del 2000). Sia il legislatore del tempo, sia i più recenti interventi del 2007 e del 2008, con i quali è stato introdotto l’art. 25-septies, sia infine l’attuazione delle direttive europee sui reati ambientali, che nel 2011 ha condotto all’inserimento dell’art. 25-undecies, hanno confermato tale scelta. La riferibilità del reato colposo all’interesse dell’ente è, in altri termini, positivamente acclarata: non può essere liquidata o considerata tamquam non esset; restando affidata all’interprete ogni precisazione utile alla sua migliore ricostruzione, teorica e pratica. Fedele amministratrice della volontà della legge è stata la giurisprudenza di merito, quando ha parlato di un collegamento «finalistico» del reato colposo all’azione dell’ente. A me sembra che ci si avvicini al senso dell’ordinamento riflettendo sulla possibilità che l’ente coltivi un interesse a “non evitare” pregiudizi per il lavoratore: cioè, a proseguire e non arrestare l’esercizio di un’attività, benché inosservante cautele doverose a tutela del lavoratore predetto.

Non si tratta, evidentemente, di un interesse all’evento offensivo, in sé e per sé preso (la morte o la lesione del prestatore di lavoro); bensì – ripeto – di un interesse a tenere una certa condotta – ad esempio, l’esercizio di un impianto non più adeguato a esigenze attuali di sicurezza –, ancorché insufficientemente cauta.  Va da sé che ciò non esaurisca la logica dell’imputazione, la quale richiede, perché l’ente possa dirsi responsabile ai sensi dell’art. 25-septies, passaggi ulteriori e ineludibili: esigendo, tra l’altro, che le cautele o gli accorgimenti a salvaguardia del lavoratore, omessi o insufficientemente attuati, siano normativamente e concretamente esigibili dall’ente, in quanto ricadano nella sfera giuridica e naturalistica delle proprie competenze.

La sentenza delle Sezioni unite mostra grande sensibilità, perché, lungi dall’impoverire il requisito dell’interesse dell’ente – e pur senza delucidarne il rapporto con l’elemento del “vantaggio”, giudicato irrilevante ai fini della decisione –, chiarisce che esso non debba collegarsi all’evento lesivo, ma alla condotta che ne è all’origine. A pag. 207, nel paragrafo 63, si legge infatti non solo che «vi è perfetta compatibilità tra inosservanza della prescrizione cautelare ed esito vantaggioso per l’ente»; ma anche che «è ben possibile che l’agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l’evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere a istanze funzionali a strategie dell’ente». In quest’ultimo passo la motivazione sembra riferirsi specificamente all’interesse dell’ente, per il quale costruisce una sicura autonomia, collegata a un preciso accertamento del giudice penale: quello concernente il significato della violazione, nel suo raccordo con le “istanze strategiche” dell’ente.

Le conseguenze, nella realtà processuale, sono dunque salienti, perché isolano un dato che la pubblica accusa ha l’onere di dimostrare. Ma altrettanto importanti appaiono le implicazioni teoriche. Segnalarei, al riguardo, come la Cassazione adotti uno schema dogmatico raffinato, ipotizzando, perché possa concepirsi un interesse dell’ente al contegno colposo, la seguente alternativa: o che l’evento, benché non voluto, sia stato previsto dall’agente (cosiddetta colpa “con rappresentazione”); oppure che l’agente medesimo sia stato comunque consapevole di violare una prescrizione cautelare. Entrambe le varianti postulano un rafforzamento della “sostanza” psicologica della colpa, visto che il soggetto, operando per l’ente, dovrebbe almeno rendersi conto che il comportamento nel quale è impegnato non soddisfi le pretese cautelari indispensabili alla tutela dei lavoratori. Sotto questo profilo potrebbe non essere azzardato parlare di una “scelta” a favore dell’incuria, sulla quale possa fondarsi l’accertamento di un interesse dell’ente al reato: sempre che, ovviamente, quella scelta esprima non soltanto un atteggiamento individuale, ma si comunichi all’ente nel quadro di un atteggiamento collettivo, consentaneo a una strategia o a un “modo” di esercitare la propria attività.               


[1]Pedrazzi, Profili problematici del diritto penale d’impresa, in Riv. trim. dir. pen. economia, 1988, p. 127.

[2]SS. UU., sent. 18 settembre 2014 (ud. 24 aprile 2014) n. 38343.

[3]Corte d’Assise di Torino, Sez. II, sent. 15 aprile 2011

[4]Il Responsabile per la Sicurezza Cosimo Caffueri, il Responsabile di Stabilimento Raffaele Salerno, i due membri del Comitato Esecutivo dell’Azienda Gerald Priegnitz e Marco Pucci, il Direttore per gli investimenti Daniele Moroni.

[5]Cass. Pen., Sez. I, sent. 15 marzo 2011 (ud. 1 febbraio 2011), n. 10411, in tema di omicidio e lesioni per inosservanza della normativa stradale (nello specifico, il mancato rispetto dell’obbligo di fermarsi all’incrocio in presenza di semaforo rosso), cagionando un disastroso incidente stradale, con conseguente morte e ferimento di alcuni automobilisti.

[6]Corte di Assise d’Appello di Torino, sent. 27 maggio 2013, n. 6.

[7]Questo il dispositivo della sentenza: «Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla ritenuta esistenza della circostanza aggravante di cui al capoverso dell’art. 437 Cp ed al conseguente assorbimento del reato di cui all’articolo 449 Cp;

Dispone trasmettersi gli atti ad altra sezione della Corte d’assise d’Appello di Torino per la rideterminazione delle pene in ordine ai reati di cui agli articoli 437, comma 1, 589, commi 1, 2, 3, 61 n.3, 449 in relazione agli art 423 e 61 n.3 Cp;

Rigetta nel resto i ricorsi del procuratore generale e degli imputati;

Rigetta il ricorso della persona giuridica Thyssenkrupp acciai speciali Terni spa che condanna al pagamento delle spese processuali. Condanna in solido gli imputati ed il responsabile civile Thyssenkrupp acciai speciali Terni spa alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ‘Medicina Democratica’ che liquida in complessivi euro 7 mila oltre accessori come per legge;

Infine, visto l’art. 624, comma 2 Cpp dichiara irrevocabili le parti della sentenza relative alla responsabilità degli imputati in ordine ai reati sopraindicati».

[8]Cfr. Pulitanò, La responsabilità da reato degli enti, i criteri di imputazione, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 2002, p. 425 s.

Ultima modifica il 05 Novembre 2014